Gerarchizzare gli insegnanti; pagarli sempre meno rispetto al costo della vita; dipingerli come impreparati e disinformati. Sono forse queste le linee programmatiche della politica scolastica e culturale di tutti i governi italiani degli ultimi 30 anni? Ciliegina sulla torta: il “docente esperto”, ennesimo miracolo scolastico agostano, del quale la nostra testata ha già ampiamente sviscerato tutti i (contraddittori) aspetti e di cui cercheremo ora di sottolineare il “sottotesto”; ossia i risvolti ideologici e programmatici (e quel che in psicologia si definisce “il non detto”).
Il prestigio e le ricchezze del docente “esperto”
Cominciamo dal metodo. Per conseguire il (prestigioso?) titolo (remunerativo?) di “docente esperto”, l’insegnante pagherà di tasca propria tutti i corsi di “formazione” necessari: impensabile per altre categorie professionali. I corsi saranno seguiti dal docente nel suo tempo libero: altre categorie frequentano i corsi di formazione in orario di servizio. Per i docenti la formazione non è lavoro retribuito, ma bene da acquistare a spese proprie e da fruire oltre l’orario di lavoro.
La retribuzione avverrà — con bassa probabilità — se tutto va bene, dieci anni dopo, all’eventuale superamento di tre percorsi formativi triennali consecutivi; ma solo per un docente su 100.
Un “esperto” solo e 99 “inesperti” (tutti egualmente poveri)
Difatti nel Decreto-Legge 9 agosto 2022, n. 115, all’art. 38, lettera b), è scritto testualmente che «Può accedere alla qualifica di docente esperto, che non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento, un contingente di docenti (…) comunque non superiore a 8.000 unità per ciascuno degli anni scolastici» dal 2032/2033 al 2035/2036. Pertanto, poiché i docenti nelle scuole statali sono più di 680.000, la quota di docenti, ammessi ogni anno (per soli quattro anni) all’ambìto titolo, equivale all’1,18% circa.
Il tutto avverrà fra dieci anni, ovvero dall’anno scolastico 2032/33. I fortunati saranno però ripagati col «diritto ad un assegno annuale ad personam di importo pari a € 5.650 che si somma al trattamento stipendiale in godimento».
E chi potrà più dire che lo Stato italiano tratta male gli insegnanti? Anche se, a ben vedere, non essendo quella somma indicizzabile (il D.L. non accenna al problema), tra dieci anni il suo potere d’acquisto sarà notevolmente ridotto: con un’inflazione annuale del 6%, nel 2032 corrisponderà a poco più di 3.000 € di oggi (circa € 250 al mese). Ma l’inflazione oggi punta all’8%.
“Beati monoculi in terra caecorum”, dicevano nel medioevo.
“Esperto” o “ri-addestrato”?
Peraltro, i pochissimi docenti che riceveranno questa incredibile cifra (dopo aver sacrificato soldi e tempo libero senza la minima certezza di riceverla, vista l’alea di ben tre percorsi formativi triennali da superare), più che “esperti” andrebbero definiti “ammaestrati” (o “ri-addestrati”, come lo stesso ministro avrebbe detto a un convegno). Infatti il premio finale somiglia molto a uno sconto di pena per buona condotta, da erogare a chi si sarà sottoposto a un percorso lunghissimo, costoso, faticoso, senza certezze sul risultato, con abnegazione, sprezzo del vantaggio personale, fede cieca nei contenuti erogati dall’alto, scarso spirito critico (al quale vanno educati gli alunni, ma non i docenti, a quanto pare).
L’assegno — tra l’altro — è annuale: il che non significa che verrà erogato ogni anno ai vincitori; i quali potrebbero esser costretti, per ottenerlo anche negli anni successivi, ad ulteriori — perché no? — corsi ed esami.
Plaude Forza Italia, plaude Valentina Aprea (che nel 2008 voleva trasformare le scuole in fondazioni e il Consiglio d’istituto in Consiglio d’amministrazione): la quale vorrebbe però una “differenziazione delle funzioni del docente esperto”, verso “funzioni legate ad un vero e proprio middle management”.
Misure “urgenti”?
Tutto ciò viene introdotto da un governo già decaduto, che avrebbe dovuto occuparsi solo “degli affari correnti”, ma che inserisce con nonchalance simili belle novità nel “Decreto Aiuti bis” tra le “Misure urgenti in materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali”. Ma era così urgente rimarcare il ruolo di arbitro supremo riservato dal PNRR alla “Scuola di alta formazione”, che gestirà i corsi di formazione triennali?
Si pensa, ma non si dice
Il “non detto”, ossia il messaggio ideologico subliminale, è sempre lo stesso: i docenti italiani valgono poco, sanno poco, lavorano poco e male; il Governo, saggiamente, investirà — poco, per non pesare sui contribuenti (dopo aver stanziato ben 200 milioni per gli stipendi dei docenti ucraini) — sulla formazione di un docente (definito “esperto”, suggerendo che gli altri non lo siano) su 100, il quale fra dieci anni aiuterà i dirigenti a costringere gli altri 99 docenti su 100 a rigar dritto. Con quale progetto di scuola? Per quale modello di società? Non è dato sapere. Forse perché non è bene si sappia, al di fuori delle ristrette élite che stabiliscono dove guidare la società stessa?
È poi proprio vero che i docenti sono così carenti? Non bastano lauree, specializzazioni, concorsi? Non è evidente, nella politica di tutti i governi che si susseguono, la scarsa considerazione anche verso le università che hanno formato i docenti? Non dovrebbero insorgere gli stessi professori universitari contro questa sfiducia? E perché si dimenticano gli sforzi di quasi tutti i docenti per l’autoaggiornamento e lo studio continuo — a proprie spese — per poter insegnare?