Abolizione del valore legale del titolo di studio significa che una laurea in legge, per esempio, è l’equivalente di una laurea in Lettere perchè private entrambe del loro valore legale specifico. Il dibattito diventa allora, non già quello di preparare nelle università avvocati, ma semplici laureati in possesso di un titolo fruibile e spendibile per tutte le occasioni. Ma c’è di più. Siccome un titolo equivale ad un altro, essendo per esempio la laurea presa a Catania senza alcun valore legale rispetto a una simile conquistata a Bolzano, calmiere nella scelta di una determinata figura professionale ad un concorso pubblico potrebbe diventare l’Università di provenienza, non già lo specifico valore della laurea che tiene conto del voto e delle altre componenti giuridiche.
E infatti i sostenitori dell’abolizione del valore legale della laurea spingono proprio su questo punto perchè gli atenei sarebbero costretti a farsi concorrenza fra loro, visto che sarebbe il mercato a selezionare i veri e più in gamba professionisti del settore.
E non basta. Secondo i promotori, compito dello Stato dovrebbe essere quello di stilare una graduatoria delle università migliori in modo che quando proprio e soprattutto lo Stato ha bisogno di personale per le sue amministrazioni, attinga non basandosi sui punteggi del voto conseguito, che finora ha messo sullo stesso piano tutti i candidati con i rispettivi atenei, ma in relazione alla università di provenienza.
Esemplificando questa posizione possiamo dire: un ateneo catalogato dall’Anvur (l’istituto di valutazione delle università) 100 garantisce che i suoi avvocati sono al top della preparazione per cui già in partenza sarebbero preferiti. Si sostiene infatti che, con l’attuale sistema, un laureato uscito da un corso di studio non altamente selettivo col massimo dei voti, ha più possibilità di lavorare o di partecipare a un concorso assai maggiori di un suo collega, strizzato da professori più pignoli, magari più preparati e deontologicamente più attendibili, e che, proprio per l’alta selettività che ha subito, ha un voto di laurea inferiore.
Concorrenza sembrerebbe la parola d’ordine, per ottenere il ranking più favorevole da parte delle agenzie di valutazione e che potrebbe pure determinare l’ammontare delle risorse da assegnare a ciascuna università per pagare meglio i propri insegnanti. Infatti l’unica concorrenza possibile, a parte l’aspetto logistico, si sposta solo sul versante delicato della docenza, dei professori migliori che verrebbero cooptati e blanditi col profumo di stipendi più lauti e non su quello della parentela, dell’amicizia, della clientela.
Dov’è il punto debole per i contrari? La creazione di università di serie A, B, C e oltre, insieme all’aumento esponenziale delle tasse in quelle università ritenute migliori che attuerebbero di conseguenza una sorta di selezione naturale basata sul censo e non sulla bravura effettiva e sulla voglia di riscatto dei ceti sociali meno abbienti. Danneggiati sarebbero soprattutto gli studenti del Sud dove, sia il reddito procapite, e sia le sedi universitarie non sono assolutamente floridi.
Un’altra proposta tuttavia vedrebbe con favore,una volta abolito il valore legale del titolo, l’implementazione di Agenzie o di Associazioni professionali che, dopo il superamento di un corso specialistico e di un esame, certificherebbero la validità della laurea, come succede negli Stati Uniti.
Tuttavia, fanno fra l’altro notare alcuni promotori della proposta, lauree come medicina, ingegneria, architettura, e quei diplomi che hanno a che fare con alte specializzazioni professionali, potrebbero rimanere fuori dalla riforma anche perché sono competenze non assimilabili con altre.
Assai critica la posizione dell’Andu (Associazione nazionale docenti universitari) espressa attraverso un comunicato.
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