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Chi boccia è brutto e cattivo?

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Sempre più spesso l’amministrazione ministeriale ripropone l’amletico dilemma della Scuola italiana: bocciare o non bocciare? Con una risposta: non bocciare. Lo fa capire il decreto n. 869 del 3 agosto 2018 dell’USR dell’Emilia-Romagna, che propone, come primo obiettivo regionale del Piano di Valutazione dei Dirigenti Scolastici, il «Ridurre i tassi di insuccesso, dispersione e abbandono, con particolare riferimento agli studenti di cittadinanza non italiana». E fin qui, nulla di strano.

Subito dopo, però, vengono forniti tre indicatori di questo obiettivo: il primo è il “Tasso di insuccesso”; ossia il “n. non ammessi alla classe successiva/n. iscritti, riferito al 2016/17”. Se l’italiano non è ancora stato definitivamente trasformato (anch’esso per decreto) in opinione, ciò significa una cosa soltanto: bisogna ammettere sempre più studenti alle classi successive. Non, quindi, aumentare e migliorare la loro preparazione; ma ammetterli. Altrimenti non è bravo il Dirigente.

Vediamo chi è più bravo…

Non c’è forse il rischio che in Emilia-Romagna si scateni una gara “meritocratica” tra Presidi per stabilire chi sia più bravo ad applicare il decreto? Con buona pace della libertà di insegnamento (e di valutazione) dei docenti, i quali sempre più in questi ultimi decenni (e particolarmente dopo il varo della Legge 107/2015 definita “Buona Scuola”) hanno visto questa stessa libertà ridursi notevolmente, non solo a causa del comportamento di molti genitori, ma anche per le pressioni che troppi Dirigenti esercitano nei Consigli di Classe in sede di scrutinio finale.

Ottimismo della volontà

Noi preferiamo confidare (ed auspicare) che ciò non accada: non tutti i Dirigenti sono uguali (come del resto non tutti i docenti). Moltissimi sono i Presidi rispettosi del lavoro dei docenti; moltissimi sono quelli convinti che l’educazione alla responsabilità personale degli alunni debba partire dai banchi di scuola. Dirigenti simili danno fiducia ai propri insegnanti, vigilano sul loro lavoro con discrezione, attenti a non umiliarli con pressioni e interferenze indebite. Dirigenti simili amano la Scuola, perché l’hanno amata quando erano insegnanti; Dirigenti simili hanno scelto di diventare Presidi non per fare carriera, ma per offrire al proprio amore per la Scuola degli strumenti in più per migliorarla.

Pessimismo dell’intelligenza

Siamo pronti a scommettere che dirigenti di questo tipo non utilizzeranno il suddetto decreto per costringere i propri docenti a promuovere. Bisogna però riconoscere che un decreto simile è quantomeno destinato a far insorgere problemi di interpretazione. E che pertanto qualche disagio potrebbe scaturirne.

Ma a cosa è dovuto tutto questo amore per gli studenti? Perché si vuole a tutti i costi che lo studente, quand’anche decisamente non meritevole, sia promosso?

OCSE dixit

Vero è che, secondo i suggerimenti dell’OCSE , è sempre meglio diminuire le bocciature. Primo perché costano. Infatti, se gli alunni vengono bocciati, essi permarranno più tempo nelle scuole, aumentandone i costi. Questa argomentazione però non tiene conto dei danni ben maggiori che l’ignoranza dei cittadini può arrecare ai conti economici di una nazione.

In secondo luogo, l’OCSE raccomanda di diminuire le bocciature perché esse provocherebbero la dispersione scolastica. In realtà, come chiunque sa, in Italia si boccia oggi molto meno che nel passato. Sta a dimostrarlo il progressivo abbassamento del livello culturale degli studenti italiani, che arrivano ormai all’esame di Stato mediamente molto più impreparati degli studenti di trent’anni fa, quando le bocciature erano molto più frequenti. Il tasso di abbandoni aumenta sempre di più perché la Scuola sempre più viene vista come era vista prima la coscrizione militare obbligatoria. La Scuola non è più considerata un ascensore sociale, né la si reputa il luogo ove trascorrere i momenti più importanti della propria vita, quelli che porteranno il cittadino di domani a porre le basi della propria crescita individuale culturale e civica. E ciò è il prodotto di almeno 35 anni di decadenza culturale dell’intero Paese.

Che ne penserebbe Gramsci?

D’altronde è di gran moda oggi riempirsi la bocca con le parole di Don Milani e di Gramsci sulla Scuola; senza ricordare però che Don Milani scriveva sulla scuola di 50 anni fa, ben diversa da quella di oggi;  e dimenticando che Antonio Gramsci considerava lo studio (quello serio e rigoroso) necessario proprio agli studenti delle classi subalterne, senza caritatevoli sconti; perché lo studio coscienzioso e impegnativo è la loro unica occasione per colmare la differenza che li separa dai loro padroni.

«Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». Così scriveva Gramsci nelle carceri fasciste. E aggiungeva con profetica preveggenza: «Occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato». Intelligenti pauca.