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Chi è un insegnante? Una domanda che ormai non si pone più nessuno

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I docenti aggrediti da studenti e da genitori; il crollo evidente degli apprendimenti; l’impoverimento linguistico e culturale; la cronaca che ci mostra quotidianamente episodi di violenza giovanile e di imbarbarimento sociale. Ce n’è abbastanza per affermare che siamo al cospetto di una scuola non più capace di formare persone in grado di affrontare la vita con le sue fatiche e anche con i suoi insuccessi.

Ricordo come se fosse ieri il mio primo giorno di lavoro in un liceo della Brianza. Era il 1° Settembre 2005, quasi vent’anni fa. Il preside di allora iniziò la prima riunione della mia carriera mettendo i propri docenti di fronte a questa domanda: «Chi è un insegnante?». Una domanda che dovrebbe essere centrale in ogni riunione tra insegnanti. Che io ricordi, però, quella fu l’unica volta in cui me la sono sentita rivolgere. E invece quanto sarebbe necessario per la scuola riappropriarsi di un’idea educativa chiara, precisa, forte, che abbia a cuore la crescita umana dei ragazzi che le sono affidati. Quante “cose” non entrerebbero nemmeno, nella scuola se, prima di accoglierle a braccia aperte, ci ponessimo questa domanda sul nostro “essere” prima ancora che sul nostro “fare”! Io penso allora che la prima e più grande urgenza davanti alla quale si trova la scuola oggi sia quella di riappropriarsi con consapevolezza del proprio ruolo. La risposta di quel grande preside, per la quale gli sarò debitore per tutta la vita e che non a caso ho scelto come titolo per il mio libro sulla scuola, fu: «Educare insegnando».

A scuola si può educare attraverso le discipline, senza per questo interrompere il corso delle normali lezioni. Non basta mettere il nome “educazione a questo”, “educazione a quest’altro” perché lo sia davvero. Non si educano i ragazzi a forza di corsi utili a insegnare loro che cosa “devono” dire e che cosa “devono” pensare. Questo è indottrinamento, anche se si usa la parola “educazione”. A scuola l’educazione non è un’aggiunta ma qualcosa che si vive “dentro” e che cresce “da dentro”, attraverso il lavoro, mostrandosi come testimoni credibili da imitare, affrontando bene i contenuti, spingendo i ragazzi a confrontarsi seriamente con quanto proposto, ad entrare con impegno in quello che devono fare, a sperimentare la fatica, a mettersi alla prova. 

In un mondo che ti abitua ad ottenere molto in fretta ciò che desideri, è diventata una tentazione quella di pensare che la fatica sia sbagliata, quasi che se fai fatica allora vuol dire che sei imbranato o che hai qualcosa che non va. E invece è vero il contrario! Rimani un imbranato se non sperimenti la fatica.

La scuola non può e non deve alimentare questa tentazione: la serietà della vita non si “impara” con un corso apposito, ma giorno dopo giorno, impegno dopo impegno, fatica dopo fatica, dentro il lavoro quotidiano.

Oggi invece è un proliferare di “educazioni a tutto”, di giornate a favore di tutto, e di giornate contro tutto. Di orientamenti in entrata e di orientamenti in uscita. Il tutto a discapito del normale lavoro scolastico, che viene continuamente interrotto e impoverito. Alunni immersi in giornate schizofreniche e continuamente “deportati” dentro e fuori dalle aule, a cui fanno da contraltare insegnanti a cui oggi si chiede di essere psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, sociologi, ingegneri, informatici, periti elettronici, intrattenitori, e anche domatori. E tutto questo tutto insieme. In altre parole, agli studenti si chiede di essere sempre meno studenti, e agli insegnanti sempre meno insegnanti. La scuola è diventata un mondo in cui tutto ciò che sembra innovativo e “diverso dal solito” è accolto a-criticamente come “migliore”.

Sono però i fatti a dimostrare che la strada intrapresa non è quella giusta, e che la progressiva erosione del tempo dedicato alle discipline non ha portato al risultato desiderato. Ma nonostante questa evidenza, le discipline sono ancora le prime ad essere sacrificate. Discipline che invece sono piene di argomenti meravigliosi, densi di insegnamenti che potrebbero parlare ai giovani dei valori alti, quelli per cui vale la pena vivere. La scuola, insomma, avrebbe la straordinaria possibilità di educare i ragazzi al vero, alla bellezza, al buono, al bene, alla grandezza dell’amore e della civiltà, alla serietà della vita, e invece oggi gli insegnanti sono continuamente costretti a selezionare, a tagliare, a ridurre, per lasciare spazio a tutte le novità possibili. Da una parte ci si aspetta che la scuola prepari persone pronte ad affrontare la vita, dall’altra le si toglie il tempo per farlo. Un corto circuito folle. Un po’ come pretendere da Tamberi che vinca le Olimpiadi impedendogli però di allenarsi.

La Bibbia dice che perfino Dio “ha fatto bella ogni cosa a suo tempo”. Non si può fare a meno del tempo giusto e della fatica del lavoro perché la crescita sia ordinata e bella. La Bibbia è antica, certo. Ma la verità rimane vera, indipendentemente dal tempo in cui viene pronunciata.

Marco Radaelli

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