Carissimo dottor Palermo,
le scrivo per contestare garbatamente la “teoria del risotto”, cioè l’idea che l’unica motivazione che spinge a imparare sia il gusto di conoscere cose nuove, un po’ come si cucina il primo piatto di cui sopra per poter dire “Mmm, che buono!”
C’è del resto chi va oltre e pensa che solo a forza di manicaretti, cioè di una nuova didattica accattivante, si risolvano anche tutti i problemi di disciplina, determinati dalla lontananza della scuola dai “giovani d’oggi” e dalla conseguente noia.
Naturalmente è fondamentale che un insegnante sappia essere un buon “cuoco” della sua materia, abbia cioè quelle competenze disciplinari, metodologiche e relazionali che rendano il più possibile interessanti le sue lezioni. Ma il luogo comune della scuola divertente giocato contro la scuola “tradizionale” è sbagliato.
La “motivazione interna” che spinge il bambino e il ragazzo sulla strada della conoscenza è fatta di altre cose non meno necessarie: la scuola è una cosa importantissima, ci vanno tutti i bambini, ci sono andati papà e mamma, serve a imparare com’è il mondo, a farsi nuovi amici, ci sono spesso difficoltà che dobbiamo imparare a superare, ci si deve impegnare per ottenere dei risultati, si deve stare attenti, studiare e fare i compiti a casa; più impariamo, più facilmente troveremo un lavoro che piace; la ricompensa per la fatica che facciamo sono gli elogi della maestra o della professoressa e anche i buoni voti per cui i genitori si congratulano.
Come disse Barack Obama agli studenti, “noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.[…] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non avrete la stessa sintonia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così.”
Aggiungo in chiusura che la scuola, come faceva notare il suo “attento lettore”, avrebbe il preciso dovere di certificare quello che gli allievi hanno imparato. Una valutazione ci deve quindi essere. L’uso dei voti (quanto, quando, come) è un tema didattico che si può approfondire, ma chi non li vuole deve almeno sostituirli con qualcosa che sia altrettanto comprensibile e che renda chiari i meriti e le carenze, invece di nasconderli con locuzioni cervellotiche. Ricordandosi comunque che non qualificano la persona, ma solo una sua prestazione o la sua preparazione in un dato momento.
Giorgio Ragazzini