Nuovo appuntamento con la rubrica Scienze per la Scuola: oggi parliamo di motivazione nello studio.
“O mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”. Vecchio motto inquadrabile nell’eterna categoria ultimativa del “prendere o lasciare”. Un motto che tuttavia fotografa una delle principali cause della demotivazione degli studenti nell’affrontare le attività di studio. Applicato rigorosamente alla scuola, significa che l’onere della responsabilità del successo formativo ricade interamente sullo studente, che deve rispondere del suo aver assolto o meno al suo dovere di studio.
Questo ci porta ad una domanda: quanto conviene investire nel fare comprendere agli studenti il loro dovere di studiare? Certamente, imparare a fare il proprio dovere è fondamentale per la crescita complessiva della persona. Diversi ragazzi però questo dovere, per i più vari motivi, non lo riconoscono o non lo capiscono. E se, fra questi, alcuni alla fine decidono di studiare, lo fanno comunque soprattutto perché costretti. Meglio di niente? Sì, per carità.
Eppure, una parte della loro demotivazione allo studio della disciplina non viene dall’altro mondo o da costitutiva stortura mentale. Viene da un bisogno di fondo, primordiale, riassumibile in una semplice domanda: qual è il senso delle cose che faccio? Trasposta sul piano scolastico: qual è il senso del mio studio di questa disciplina? A che mi serve? Una domanda che normalmente non accetta, negli allievi, risposte non certo assurde, ma elusive e proiettate in un futuro remoto (Intanto studia, un giorno capirai).
La prossimità temporale con la “Giornata della Memoria”, ci riporta al nome di Viktor Frankl, uno psichiatra austriaco sopravvissuto ai campi di concentramento, fra cui quello di Auschwitz. Bene, Frankl diceva che l’essere umano è assetato di senso più ancora che di felicità: ha bisogno cioè di riconoscere il senso delle cose che fa, che vive, delle cose che gli succedono. Altrimenti, non regge alla sfida. Non a caso, Frankl parte da una frase di Nietzsche che scolpisce questo concetto: “Chi trova un perché nel vivere, può sopportare qualsiasi come”.
E qui veniamo alla didattica: quale valore hanno le discipline agli occhi degli studenti? Qual è il loro perché? I docenti che risultano particolarmente motivanti partono da questa domanda e investono le loro maggiori energie nel cercare di aiutare i loro allievi a trovare, appunto, il senso della disciplina insegnata. Lavorano certamente sul cosa (i contenuti) e sul come dell’apprendimento (i metodi di insegnamento e apprendimento); ma il salto decisivo lo fanno le risorse che investono sul perché apprendere quella materia di insegnamento da parte degli allievi.
Docenti ormai molto noti nel web, come Vincenzo Schettini, esprimono in modo icastico (ovviamente col loro personale stile) questo mantra: il senso è alla base di tutto. “La fisica che ci piace” è una locuzione più accattivante e più semplice per dire “La fisica che ci rivela un senso, in cui riconosciamo un senso”. “Ci piace” per questo: perché ci aiuta a stare al mondo in modo da comprenderlo meglio da subito, ci aiuta a starci meglio, a viverne la conoscenza come un’avventura affascinante.
I principi motivazionali di motivazione intrinseca su cui si basa il lavoro dell’insegnante sul senso della disciplina agli occhi degli studenti sono soprattutto due. Il primo è la curiosità epistemica, l’esigenza cioè di conoscere il mondo attorno a noi (con una amplissima espressione che spazia, verso l’alto, fino ai vertici della ricerca scientifica e, se vogliamo, verso il basso, fino alle regioni del pettegolezzo). E’ l’orientamento insopprimibile che c’è nell’Ulisse che vive dentro ciascuno di noi e che si tratta talvolta di provare a risvegliare. Il secondo principio è la motivazione di effectance, cioè l’esigenza di padroneggiare le situazioni in cui ci troviamo, di esercitare su di esse un controllo (innanzitutto conoscitivo).
Questo lavoro sul senso, insomma, è fondamentale perché riguarda la natura più profonda del nostro essere. Ma è anche un lavoro faticoso e rigoroso sul piano professionale, perché richiede non solo una sicura conoscenza dei contenuti della disciplina, ma anche padronanza della sua natura epistemica, cioè dei suoi metodi, del suo linguaggio, delle sue modalità di approccio ai problemi, dei suoi nuclei fondanti, così come del suo valore formativo, cioè della sua capacità di sviluppare competenze. E richiede una grande capacità di mediazione didattica, che consenta di creare continuamente ponti diversificati fra la disciplina da una parte e gli studenti dall’altra, con i loro schemi cognitivi, le loro curiosità e le loro mappe emotive e valoriali.
Viktor Frankl diceva che è sopravvissuto psicologicamente ad Auschwitz perché ha cercato di trovare un senso persino nella sua permanenza nei lager: la possibilità di rivedere la moglie Tilly, anche lei internata in un lager, una volta rientrato a Vienna e la possibilità di imparare qualcosa da quell’esperienza terribile e di pubblicare gli appunti che era riuscito, pur fra mille difficoltà, a prendere (taciamo qui su com’è andata a finire in entrambi i casi).
L’invito implicito che egli potrebbe fare al mondo della scuola è quello di non smettere di aiutare i propri studenti a trovare un senso nel loro viaggio avventuroso alla scoperta del mondo così come viene disvelato da questa o da quella disciplina di insegnamento. A trovarvi quel perché con cui si può affrontare qualsiasi come.
V.: Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager. V., fra gli altri, i siti https://www.viktorfrankl.org/ e https://www.segnalo.it/PAGINE/FRANKL-LAGER.htm
V. Harter, S. (1978). Effectance motivation reconsidered: Toward a developmental model. Human Development, 21(1), 34–64 (https://karger.com/hde/article-abstract/21/1/34/156128/Effectance-Motivation-Reconsidered-Toward-a)
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