Chiamata diretta, fregatura perfetta

La prima cosa che si può dire dell’intesa governo-sindacati sulla cosiddetta chiamata diretta, anche senza poterne conoscere i dettagli, è che questa novità accresce ulteriormente il potere dei DS e, allo stesso tempo e nella stessa misura, sottrae prerogative e dignità alla professione del docente.
Ammettiamo pure (senza concedere) che il DS,nell’esercitare il ruolo di datore di lavoro, debba attenersi a criteri oggettivi: in ogni caso il fatto che le assunzioni presso il proprio istituto le faccia lui, e non un ufficio terzo, modifica di per sé la relazione fra insegnante e capo d’istituto.  
Ma poi questa oggettività, a guardare le cose con appena un po’ di attenzione, non può sussistere. Vi è un primo livello di interventismo (per non voler parlare di arbitrio) quando il DS seleziona i quattro criteri prioritari, sui 20-30 previsti, da applicare per l’individuazione dei docenti “adatti”, e un secondo nella cosiddetta “personalizzazione” che ogni DS potrà introdurre nei criteri. E’ chiaro che si aprono ampi spazi per una scelta di criteri selettivi fatta ad personam (ad amicum, ad familarem). Ed è appena il caso di osservare, inoltre, che questi spazi in alcune regioni d’Italia saranno più ampi che altrove.

Passiamo oltre: l’anzianità di servizio praticamente sparisce dai criteri di selezione. Ora, se si dice che essa non deve essere l’unico criterio per scegliere un bravo insegnante, si può benissimo ragionare sulla questione. Ma espungerla completamente come si farà ora (l’anzianità conterà solo a parità assoluta degli altri criteri) non è né giusto né utile. L’esperienza, se accompagnata da intelligenza, responsabilità, cura per il proprio lavoro, è professionalizzante: fa capire dove si deve insistere e dove si può cedere, smussa gli angoli, cancella le asprezze, rende insomma migliori come docenti e anche come persone.

Ancora: non illudiamoci che questo sistema alla lunga varrà solo, come ora, per 1/7 circa degli insegnanti. Qui si sta applicando un criterio di gradualità, per cui le mura della cittadella si abbattono l’una dopo l’altra, finché la guarnigione rimane del tutto indifesa.
Di più: non aspettiamoci aiuti dagli stessi sindacati che hanno raggiunto l’intesa. Essi al più potranno fingere di non essere d’accordo su questo o quel dettaglio, intraprendere qualche scaramuccia di retroguardia a scopo dimostrativo. Infatti i sindacati sono ben contenti che si trasformi la scuola in un’azienda.
Dove non sussistono figure dotate di una loro riconosciuta dignità professionale, essi trovano il loro humus, perché possono intervenire e fingere di fare da garanti nei confronti del capo o del capetto. Perciò saranno ben contenti di questo ulteriore passo che toglie specificità al settore scolastico, che equipara la scuola  all’azienda, e così facendo la spiana, la ara, fa di essa un docile strumento nelle mani dello Stato-pedagogo che si profila al fosco orizzonte.

Chi, come AESPI, si riconosce nel docente che è entrato nella scuola non perché voleva imbrattare carte e farsi “progettista” di corsi di ukulele, ma perché amava la sua materia di studio e gli interessava il rapporto  con esseri umani in formazione, continuerà a chiedere per i  colleghi quella dignità e quel riconoscimento prima giuridico e poi sociale, senza i quali essi diventano “categoria”, crocifissi dal disprezzo degli studenti, dalla tartufesca assistenza dei sindacati, dal dirigente despota con il suo nominato corteggio. 
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