Lo ammetto: sono uno di quei pochi presidi che anche quest’anno ha attivato la chiamata diretta nei tempi previsti.
Con un “Avviso” pubblico, sulla base dei criteri approvati dal Collegio dei docenti, con CV ed un colloquio finale, assieme al capo dipartimento della materia coinvolta ed il vice-preside (quando si tratta di una scuola in reggenza).
Una volta pubblicato l’esito, in ragione dei posti disponibili, i docenti poi hanno avuto la possibilità di esprimere la propria preferenza, tra opzioni e scuole diverse. Perché alla fin fine la scelta finale è sempre dei docenti.
Perché ho seguito questo percorso, sapendo della contraddizione di fondo, cioè del fatto che da un lato la “chiamata” rappresenta, finalmente, un filtro qualitativo (perché il sapere ed il saper fare non sempre coincidono), e dall’altro la scelta finale è comunque dei docenti, se teniamo conto anche delle libere domande di trasferimento, delle libere richieste di assegnazioni provvisorie, delle rigide graduatorie, in caso di cattedra vacante, per le supplenze?
Potevo fare come nella maggior parte delle scuole, lasciando agli USR le nomine d’ufficio.
L’ho fatto per dare un segnale. Che dovrebbe valere per tutti, compresi i presidi, perché un filtro qualitativo, attraverso il consiglio di istituto, dovrebbe far capire che in qualsiasi comunità di lavoro non ha più senso l’opzione individualistica, per la regola aurea che il tutto è sempre più della somma delle parti.
Per questo motivo, nel mondo del lavoro non basta più un CV neutro, ma ci vuole un CV dinamico, che dica l’originalità di apporto in ragione della specificità dell’ambito di lavoro. E le scuole, lo sappiamo, anche di uno stesso indirizzo, non sono tutte uguali. Come cerchiamo di mettere in chiaro nei vari POF, oggi PTOF.
Questo perché il dato cognitivo non esaurisce il valore educativo e culturale di una proposta scolastica.
L’individualismo e il matematismo che sottostanno alla assegnazione dei docenti alle scuole oggi non hanno cioè più alcun senso. E non si venga ad invocare la libertà di insegnamento, che ha altro significato.
Il problema di fondo, quello che provoca diffidenza, scetticismo, sospetto, riguarda la trasparenza, quindi anche un margine di discrezionalità. Per questo motivo ho chiesto il coinvolgimento del capo dipartimento, scelto, come è noto, dagli stessi docenti. Una garanzia di oggettività.
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La scuola, cioè, come una comunità, in ragione di una sua autonomia ed originalità di proposta. Tutti, ovviamente, al “servizio”, perché “servizio pubblico”.
Scuole, cioè, diverse, grandi e piccole, comunque espressione di una storia e di una capacità di presenza ed interpretazione dei bisogni formativi, delle speranze e delle aspettative delle famiglie e di un territorio.
L’unico baluardo, questa autonomia, al processo di centralizzazione in atto. Che vede nel ministro il referente politico e tutta la struttura come semplice emanazione “funzionale” della volontà politica. Senza più considerare un ruolo attivo agli enti locali, agli enti intermedi, a qualsiasi forma sussidiaria.
Il “filtro qualitativo” accennato rimanda alla “cultura dei risultati”, la quale va valutata, come purtroppo ancora oggi, non solo in ingresso, ma soprattutto in itinere. La crescente pressione dei genitori è proprio in ragione di questo cambio di marcia. Una pressione destinata a crescere sempre di più.
Questa “cultura dei risultati” va dunque declinata secondo una visione comunitaria, e non più verticistica o meramente burocratica.
La soluzione potrebbe essere semplice: adottare anche per i presidi lo schema della “chiamata” prevista oggi per i nuovi docenti. Nel senso che i presidi, alla fine del loro contratto triennale, sarebbero tenuti a candidarsi in ragione di un “Avviso”: sulla base di una valutazione di merito sul triennio appena concluso, di un CV dinamico (non solamente la “lista della spesa” prevista dall’europass) e, soprattutto, di un colloquio (con un ispettore dell’Usr e con rappresentanti del consiglio di istituto della scuola prescelta).
Tutti, in poche parole, dovrebbero essere un po’ “misurati” prima di un incarico, vista la delicatezza del ruolo. Anche con un test, come richiesto da Galimberti, psico-attitudinale. E chi non trovasse la scuola? Potrebbe, nei casi estremi, essere retrocesso a docente.
So che sarebbe un po’ farraginoso, il tutto. Ma perché non sperimentare in qualche regione questa novità? Questo richiederebbe, lo sappiamo, la mitica, sempre tentata e mai conclusa, riforma degli organi collegiali. Ma una via sperimentale è sempre possibile, a legislazione vigente.
La crisi di tante scuole, come l’eccellenza di tante altre, deriva, lo sappiamo (anche e non solo) dal ruolo più o meno attivo, propositivo, culturalmente sostenuto, dei propri docenti come dei dirigenti scolastici. I quali riescono in questo loro compito perché, al di là delle competenze burocratiche, sanno o meno valorizzare quelle competenze soft (soft skills) che sono essenziali oggi in tutto il mondo del lavoro. Ancor più in un contesto segnato fortemente dall’etica della solidarietà, vista la diversità qualitativa delle scuole rispetto a qualsiasi azienda o mondo professionale.
Il vero timbro qualitativo di una scuola infatti è tutto nella sua capacità di farsi scuola di una comunità locale, non mera emanazione o espressione periferica del potere centrale. Qual è il “valore aggiunto” di tutti noi, all’interno delle nostre scuole?
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