Rispetto alle posizioni di Galli della Loggia, il Corriere di oggi propone, la chiamerei così, una posizione più aperta, che fa da pendant a quella di Giuseppe de Rita del 3 agosto scorso. Parlo dell’editoriale del noto politologo Angelo Panebianco.
Che tipo di preparazione possono vantare i ragazzi che escono, dalla scuola e dalla università, con un titolo di studio, in termini di preparazione specifica al proprio percorso di studio e di “civismo”, cioè di empatia e di rispetto degli altri?
Domanda giusta, domanda che dovrebbe campeggiare in ogni collegio dei docenti.
Perché le conoscenze, da sole, sono sì necessarie, ma non sufficienti per dire di una qualità di una preparazione.
E non basta regalare un voto, un pezzo di carta, un titolo di studio.
Di illusioni ne siamo pieni, senza pensare, al fondo, che per la vita di questi ragazzi basterà comunque l’arte di arrangiarsi, se non hanno la fortuna di famiglie solide alle spalle, pronte ad investire per il futuro dei propri figli.
Cose che ci siamo detti più volte, osservando le comparazioni tra scuole, tra regioni, tra indirizzi di studio.
Non basta regalare, ripeto, un voto, un titolo di studio.
E qui Panebianco ha il coraggio di parlare del problema del reclutamento dei docenti e dei presidi, con le criticità che ben conosciamo, con i concorsi nazionali, così come sono impostati, che non funzionano, perché regalano solo posti di lavoro senza una verifica di qualità e secondo specifiche attitudini.
Invece noi facciamo?
Preferiamo nasconderci dietro alla gestione ministeriale, confidando nella legge dei grandi numeri, mentre, lo sanno bene i presidi che, in questi giorni, stanno approntando le cattedre, che non c’è legge dei grandi numeri che tenga di fronte alla responsabilizzazione, cioè alla assegnazione della responsabilità docente verso una classe, un dipartimento, un Collegio docenti, una scuola.
Non sarebbe il tempo di farla finita con le graduatorie ed i trasferimenti, che danno tutto il potere ai singoli docenti, indipendentemente da storia personale, capacità consolidata e inserimento in una scuola che si data un profilo (nel Ptof), delle priorità e richiede delle particolari attitudini? Perché continuare a difendere l’individualismo nascosto dietro ad una libertà di insegnamento male interpretata?
Del resto, senza un sistema di valutazione terzo, che nessuno vuole, perché lamentarsi? Perché lamentarsi, poi, vista la difficoltà, al di là delle fumose griglie di valutazione, di stabilire secondo una qualche equità (tra e nelle classi) con una chiara soglia di sufficienza; perché lamentarsi, dicevo, se poi nelle comparazioni vengono fuori situazioni imbarazzanti?
“Essere consapevoli di ciò che non va non basta per cambiare le cose”, insiste Panebianco.
Ma ne siamo consapevoli, ne sono consapevoli i decisori politici, guidati da due presidi, cioè il ministro ed il sottosegretario?
Se queste sono le conseguenze, non sarebbe meglio non avere due responsabili che vengono dal mondo della scuola?
Ne sono consapevoli i sindacati, gli opinioni leader, e quant’altri interessati al bene di tutti?
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