La scuola italiana è alle prese in queste settimane con l’ennesima riforma della scuola. “La Buona Scuola”di Renzi inizia il dibattito in Parlamento tra lo sciopero del 25 aprile dei Cobas e quello proclamato per il cinque maggio dai maggiori sindacati della scuola.
Ho visto in questi giorni “Classenemy”, piccolo film sloveno di un debuttante dell’85, Rok Bicek, che sa comporre allo stesso tempo una disamina semiautobiografica sull’educazione, un racconto metaforico del suo giovane paese, indipendente dal 1991, e una sofisticata lettura dell’Europa politica contemporanea, spaccata tra le sue componenti e nell’atteggiamento verso il rigore imposto dalla Germania, che da dietro la cattedra in tedesco dispone di “fare i compiti a casa”.
Questo film, in lizza per il Leone d’oro alla 70ma Mostra del cinema di Venezia del 2014, può aiutarci a riflettere sulle questioni nodali che la riforma vuole affrontare.
In un liceo di Lubiana arriva un nuovo professore di tedesco, Robert. L’uomo imprime subito un cambiamento nell’insegnamento: non ha atteggiamenti violenti né volontà di sottomettere, ma impone una severità ai suoi studenti, al loro modo di rapportarsi verso lo studio e la vita. È una scuola superiore, quindi non dell’obbligo, loro hanno scelto di iscriversi e devono agire di conseguenza: “Essere studenti non è un diritto, ma un gran privilegio”, è una sua battuta fulminante. Nelle sue lezioni fa studiare ai ragazzi il “Tonio Kröger” di Thomas Mann, un capolavoro sulla difficile età della crescita, di cui la pellicola recupera molti spunti, specie nei rapporti tra alcuni personaggi. Basta parlare tedesco ed essere severi per essere considerato una specie di nazista? Ed esiste autorevolezza senza l’autorità di far rispettare le regole? Dove si ferma la comprensione e comincia l’indulgenza? E come si corregge l’errore, ignorando o punendo? Il professore, a priori privo di emozioni è in realtà animato da una passione per l’educazione scolastica che gli fa prendere il suo lavoro molto sul serio, lasciando poco spazio ai compromessi.
Nel film c’è una frase ricorrente di Mann che dice: “La morte di un uomo conta meno per se stesso che per chi gli sopravvive”. È una frase che il professore usa per indurre gli studenti a costruirsi una forte personalità nel difficile percorso che li aspetta, ma è una frase che suona drammatica quando succede la tragedia: una delle studentesse si uccide. L’evento sconvolge i ragazzi, travolgendoli nelle loro già delicate psicologie segnate da vari problemi più o meno dichiarati, e induce parte di loro a riversare la colpa sul professore. Il capro espiatorio. La situazione diventerà sempre più problematica, dividendo lo stesso fronte dei ragazzi. Ed evolverà verso una soluzione che non distribuirà i torti e le ragioni, ma lascerà aperta la domanda più dura: dove sta la colpa?
Esplorando le zone d’ombra che separano i torti dalle ragioni, i buoni dai cattivi, i vincitori dai vinti, la partitura di Classenemy segue implacabile l’evolversi di quella piccola comunità che è la classe, chiusa claustrofobicamente tra le pareti dell’aula e i corridoi: non vediamo mai le case di studenti e professori, la loro vita fuori, anzi non vediamo nemmeno oltre i vetri delle finestre perché la luce è sempre troppo bianca. Il mondo è tutto quella classe ed è rivelato tra le altezze di Mann e l’eco struggente di un preludio di Chopin, mentre assistiamo allo svolgersi della quotidianità scolastica soffocata ed esplosiva degli studenti. Classennemy smonta gelidamente le certezze più categoriche e invita a riflettere. Il giovane regista nel suo film, mette anche un po’ di sé, con il ricordo della radio scolastica e l’episodio cardine del suicidio di una ragazza.
Soprattutto, mette in gioco una riflessione tra la modernità educativa, intesa come deresponsabilizzazione e protezione ad oltranza dei giovani dai dolori della vita, e vecchia scuola, più formativa ma meno empatica. Nel mondo odierno del “Al lupo! Al lupo!”, la serietà di Zupan lo porta a venir accusato niente meno che di nazismo e ad essere identificato con un sistema – questo sì inflessibile e immutabile- rispetto al quale la sua cultura è invece probabilmente l’unico antidoto possibile.