La trasformazione della denominazione del Ministero dell’Istruzione, che già in passato aveva perso significativamente la denominazione “pubblica”, in Ministero dell’istruzione e del Merito è espressione di una precisa volontà politico-culturale. Infatti, se riferito agli studenti, tutelare esclusivamente il Merito si pone decisamente in contrasto con il modello costituzionale in cui la scuola pubblica è uno strumento essenziale per garantire l’uguaglianza sostanziale prevista dall’art. 3, che deve mirare soprattutto a tutelare i soggetti economicamente, culturalmente e socialmente più deboli. Se riferito ai docenti il Ministero del Merito implica che qualcuno, dotato di potere gerarchico, valuti il presunto merito, il che nella migliore delle ipotesi significa una drastica riduzione della libertà di insegnamento e del pluralismo didattico culturale che dovrebbe caratterizzare la scuola pubblica, dato che chi deve essere valutato inevitabilmente viene indotto ad assumere le tesi del valutatore, ancor di più se si tratta del dirigente scolastico che opera nella stessa scuola; nella peggiore delle ipotesi determina servilismo e sudditanza, con effetti nefasti anche sulla democrazia degli organi collegiali.
Ma la denuncia del Merito da parte del PD o del centro sinistra e di intellettuali mainstream che fanno capo a quella area è ipocrita e strumentale, perché il cambio di denominazione del ministero svela la filosofia aziendalistica e meritocratica che caratterizza le ultime riforme del governo Draghi. La Legge 79, per permettere solo ai meritevoli di insegnare, istituisce un vero e proprio percorso ad ostacoli per l’immissione in ruolo dei docenti, caratterizzato da tre step, ognuno con prova finale selettiva (percorsi abilitanti, concorso, anno di prova), con rilevanti costi a carico dei partecipanti e con il rafforzamento del mercato privato della formazione. Inoltre, prevede la c.d. formazione incentivata, obbligatoria per i neo assunti e facoltativa per gli altri, con prove intermedie e finali selettive, con un premio una tantum assegnato in modo non generalizzato o a rotazione che, in base alle stesse previsioni del Ministero, andrà solo al 5% circa dei docenti, per effetto del vincolo delle risorse. Infine, la Legge 142/2022 prevede un ulteriore scalino gerarchico: coloro che supereranno per 3 percorsi formativi triennali consecutivi le prove finali concorreranno per diventare docenti stabilmente incentivati con un assegno annuale ad personam di 5.650 euro (circa 400 euro al mese lordi) aggiuntivo allo stipendio; dal 2032-33 per 4 anni potranno accedere al premio solo 8mila docenti all’anno (meno di 1 per scuola). I contenuti della formazione in entrata e in servizio prefigurano un indottrinamento di Stato lesivo della libertà di insegnamento, con la digitalizzazione intesa come asservimento alla macchina informatica, l’orientamento inteso come marketing, l’inclusione intesa come medicalizzazione, la didattica delle competenze intesa come addestramento a saper fare decontestualizzati in linea con la precarizzazione del lavoro, meccanismi che hanno già prodotto tanto analfabetismo cognitivo. La scuola ha, invece, bisogno di puntare allo sviluppo di strumenti cognitivi e del pensiero critico per formare cittadini consapevoli, soggetti attivi della democrazia sostanziale. A tal fine non ha bisogno di competizione individuale e di gerarchia tra i docenti, ma di collegialità effettiva e cooperazione. Le risorse saranno ricavate dal taglio dei fondi per la Carta docenti (che invece va estesa anche ai precari, come stanno decidendo i tribunali accogliendo i nostri ricorsi) e dal taglio di 11.300 posti motivati con il calo demografico che, invece, potrebbe essere l’occasione per destinare i fondi che si risparmieranno (oltre a quelli del PNRR) alla riduzione del numero di alunni per classe, all’ampliamento degli organici, con l’assunzione di tutti i docenti con 3 anni di servizio e degli ATA con 2, e per l’edilizia scolastica e la sicurezza. Mentre si punta ad aumentare le retribuzioni di una piccola parte della categoria tutto il personale attende da 3 anni il rinnovo del contratto, con una perdita del potere d’acquisto, rispetto al maggio 1990, del 30% circa, che sarà ancora maggiore con il caro energia e l’inflazione al 12%.Inoltre, il governo si appresta a dare attuazione all’autonomia differenziata, che rappresenta un altro gravissimo pericolo per il principio di uguaglianza sostanziale con la frantumazione regionale dell’istruzione pubblica, l’aumento delle diseguaglianze sociali, del divario tra Nord e Sud e tra centro e periferia.
Nell’ambito della piattaforma dello sciopero generale del 2 dicembre i COBAS Scuola chiedono: il rinnovo del CCNL con il recupero del potere d’acquisto perso e la tutela del salario reale dall’inflazione; l’abrogazione delle norme sulla scuola delle leggi 79 e 142; l’assunzione dei docenti con tre anni di servizio e degli Ata con due; la riduzione degli alunni per classe; investimenti significativi nell’edilizia scolastica; l’eliminazione del riferimento al Merito nella denominazione del Ministero con una coerente inversione di tendenza nella politica scolastica, il ritiro di qualsiasi progetto di autonomia differenziata.
Rino Capasso – Esecutivo nazionale COBAS Scuola
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