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Come avvicinare i giovani alla poesia? Facile, rendendo più umani i poeti. La proposta di una docente

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‘Eterno visionario’ è l’ultimo film di Michele Placido, in questi giorni in tutte le sale italiane. Narra una parte importante della vita familiare, intima e letteraria di Luigi Pirandello che ripercorre a ritroso alcuni tra i momenti più dolorosi della sua esperienza di uomo e di artista. Come ha spesso ripetuto nelle varie trasmissioni televisive alle quali è stato invitato per presentare il film, Placido è fermamente convinto che sia di fondamentale importanza conoscere la vita di uno scrittore, entrando nelle sue pieghe più private e nascoste, per poterne comprendere appieno l’opera.

La pensa allo stesso modo una giovane docente di Lettere, Paola Grande, che sul sito ‘direfareinsegnare.education’  ha pubblicato qualche giorno fa un articolo che potrebbe prestarsi all’avvio di uno stimolante dibattito su una delle questioni didattico-metodologiche più complesse: come operare concretamente nelle classi, affinché gli adolescenti di oggi si appassionino all’opera dei grandi scrittori della nostra tradizione letteraria e alla poesia in particolare?

La vita provata degli scrittori, dicevamo. Ebbene, per capire le ragioni della totale indifferenza da parte dei suoi alunni rispetto alla poesia, Paola Grande è partita da una riflessione: la poesia è totale immersione nella sofferenza profonda dell’essere umano, scoperta delle verità nascoste e controverse, consapevolezza del limite e delle contraddizioni dell’esistenza. In sostanza, è dolore. La generazione che si sta formando tramite reel e Tik Tok rifiuta invece categoricamente questo tipo di stoica accettazione e di ostinazione vitale che si contrappone alla certezza della fine di tutte le cose. Preferisce mettere da parte il reale e rifugiarsi nell’ideale rappresentato dal virtuale. Tuttavia, mentre la tecnologia per come viene fruita oggi è un movimento fittizio, un’illusione di inarrestabilità che si concretizza in nichilismo, apatia, immobilismo morale, culturale e sociale, la poesia costringe il poeta a calarsi personalmente nella delusione della realtà prima di poter provare giovamento nella fuga onirica. Il risultato è – continua Paola Grande – che il poeta soffre e matura il suo pensiero e la sua coscienza nel dolore che è, però, anche crescita, evoluzione, progresso, spinta vitale.

La docente ritiene che per ’accorciare le distanze’ tra un poeta della tradizione classica e un adolescente di oggi, occorra mettere in evidenza anzitutto la personalità dell’autore prima di ogni altra peculiarità stilistica, raccontare il contesto in cui viveva, la sua quotidianità, le sue passioni e le sue debolezze, che è ciò che si cela dietro i suoi testi: così – esplicita Paola Grande – Dante sarà un giovane innamorato e impacciato, che al solo sguardo di Beatrice perde la parola; Ariosto un orfano di padre costretto a fare un lavoro che non gli piace e che trova nella letteratura la sua fuga; Pascoli un adulto che si aggrappa al suo fanciullino, la sua mappa interiore per non perdersi nel mondo fuori; Ungaretti, Svevo, Pirandello, intellettuali in un mondo che sta cambiando rapidamente e la cui parola, oggi, risuona quasi profetica rispetto al disorientamento dell’individuo moderno. Occorre, in altre parole, spogliare questi nomi della loro altisonanza, rivelare il non detto della loro sfera privata che subito li ridimensiona a essere umani vivi e reali invece che personaggi nebulosi ricurvi sul foglio bianco.

La poesia – conclude Grande –  è in questo senso uno scrigno dal valore inesauribile perché i poeti vivono più il disagio che il benessere, la frustrazione più che l’appagamento, l’incompiutezza più che l’integrità: e in cosa può riconoscersi la gioventù se non nella mancanza e nel turbamento?

Questo, secondo la docente, è un possibile percorso, da lei testato in classe, per avvicinare i ragazzi alla poesia. Non sappiamo in quanti condivideranno questo procedimento, partire cioè dalla vita dell’autore per spiegare la sua opera, che altrimenti non verrebbe compresa fino in fondo. Di sicuro, Paola Grande e Michele Placido non avrebbero ottenuto l’approvazione di Marcel Proust, che nel suo noto saggio “Contro Sainte-Beuve”, attaccò duramente il celebre critico letterario suo contemporaneo che credeva, anche lui, che per giudicare un libro bisognasse anche saper tutto della vita reale e quotidiana del suo autore, delle sue opinioni, dei suoi comportamenti. Per l’autore della Recherche, al contrario, “un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri visi.”  Chi avrà ragione?