Nel più ampio contesto del programma di riforme dell’attuale Governo, Matteo Renzi si è presentato come colui che restituirà efficienza ed eccellenza alla scuola italiana. In quest’ottica, lo scorso settembre, il premier ha avviato una campagna promozionale relativa al prossimo piano di interventi sul sistema scolastico, le cui parole d’ordine sono state piano di assunzioni, eliminazione del precariato, taglio degli sprechi, meritocrazia, formazione continua, trasparenza.
Obiettivi eccellenti, degni di un governante illuminato, che attraverso un mirato trattamento mediatico sono divenuti la risposta tanto attesa ai problemi della scuola. Obiettivi che, di fatto, poco hanno a che vedere con il contenuto e gli scopi reali della riforma che Renzi intende fare approvare a fine febbraio. Per cui la prima azione del Governo è stata quella di creare un sistema di consenso che impedisse all’opinione pubblica di sollevare obiezioni nel momento in cui tale riforma fosse stata attuata. Ciò è avvenuto mediante la suddetta campagna, che ha avuto lo scopo “ufficiale” di stabilire un dialogo diretto con i cittadini e aprire una piattaforma di discussione e confronto sull’argomento, secondo il principio per cui nessun provvedimento sarebbe stato imposto dall’alto; in realtà, ha mirato esclusivamente a dare l’impressione di un’azione fortemente democratica e innovativa. Infatti, la parte della consultazione avvenuta on line è stata strutturata in modo tale da non consentire una libera espressione di giudizio, oltre che sottoposta a censura; mentre il confronto attuato nelle scuole si è rivelato essere una pura azione di propaganda.
Nonostante ciò, forti obiezioni sono state mosse da tutto il mondo della scuola al documento pubblicato dal Governo a inizio campagna, intitolato “La buona scuola” – i cui contenuti sostanzieranno la riforma – evidenziando i gravi rischi che l’attuazione del piano comporterebbe non solo per il personale docente e la popolazione in età scolare, bensì per il Paese, dal punto di vista occupazionale, del patrimonio intellettuale e del futuro dell’istruzione pubblica. Infatti, a fronte dei 150.000 docenti che il Governo dichiara di “volere assumere” – di fatto costretto a farlo dalle recenti direttive europee in materia di contratti di lavoro – da settembre 2015 saranno espulsi dalla scuola pubblica circa 300.000 docenti precari, che attualmente svolgono il ruolo di supplenti nella cosiddetta III fascia delle graduatorie d’istituto, sulla base dei requisiti richiesti dal Ministero della Pubblica Istruzione.Dunque centinaia di migliaia di laureati, formatisi presso l’Università Italiana, si ritroveranno ex abrupto privati del sostentamento economico e del ruolo sociale conferito loro dall’esercizio della propria professione.
Il “taglio dei costi”, unico, vero scopo della riforma, sarà attuato mediante il conferimento delle supplenze, ovvero del lavoro sottratto ai futuri 300.000 disoccupati, ai 150.000 neoassunti, che non diventeranno titolari di una cattedra relativa alla propria formazione, bensì, demansionati, svolgeranno il ruolo di “tappabuchi”, inseriti all’interno del cosiddetto “organico funzionale”. Altri laureati “superflui”, dunque, in quanto per la funzione di tappabuchi non necessita una laurea. Per gli allievi la conseguenza principale sarà la perdita dei contenuti delle ore supplite, a discapito della continuità e della qualità della formazione, oltre che di un punto di riferimento stabile nell’ambito sapienziale di riferimento.
Ai docenti di ruolo saranno richiesti un incremento delle ore lavorative, a titolo gratuito, e la mobilità su una rete di scuole. Inoltre, gli stessi dovranno acquisire “merito”, mediante un punteggio numerico derivante dallo svolgimento di “attività extracurriculari e di formazione” non meglio definite. Tale punteggio risulterà necessario per ottenere scatti stipendiali che nell’arco di un’intera carriera porterebbero alla maturazione di un trattamento economico che sarebbe equo oggi, non tra quarant’anni. Lo stesso punteggio contribuirà ad aumentare le possibilità che il doc Risulta evidente come un docente costretto a fare straordinari gratuitamente, a cambiare continuamente la propria sede di lavoro, ad accumulare punteggio attraverso attività extracurriculari e, soprattutto, a ingraziarsi il dirigente che dovrà “sceglierlo”, evidentemente avrà tempo ed energie insufficienti per preparare lezioni, predisporre e correggere verifiche, partecipare a consigli e riunioni, confrontarsi con i genitori sull’andamento dei loro figli, sorvegliare il livello di partecipazione e apprendimento degli alunni e intervenire con opportune misure correttive.
Ancora, le supplenze brevi residue rispetto alla capacità di copertura dell’organico funzionale saranno affidate ai docenti abilitati che non sono rientrati nel piano di assunzioni, attualmente nella cosiddetta II fascia, i quali lavorerebbero in modo discontinuo – mentre oggi ricoprono supplenze annuali – in attesa di risultare vincitori dei futuri concorsi. Costoro risulteranno doppiamente beffati, perché oltre a essersi laureati per svolgere una professione svuotata del proprio senso e sottopagata, hanno conseguito a caro prezzo un’abilitazione “inventata” per rimpinguare le casse delle università, che dovrebbe consentire loro l’accesso diretto al ruolo, anziché relegarli in una situazione di precariato peggiore di quella attuale.
Manca nel piano del Governo qualsiasi riferimento al personale ausiliario, tecnico e amministrativo della scuola. Quanto una riforma così concepita abbia a che fare con la missione educativa del docente, come possa valorizzare le competenze necessarie a trasmettere alle giovani menti capacità critica e metodo d’indagine, e in definitiva come intenda erogare formazione di qualità, indispensabile allo sviluppo dei talenti e alla realizzazione professionale delle nuove generazioni: è irrilevante in un’azione di governo finalizzata unicamente a operare tagli laddove è possibile farlo senza toccare i privilegi delle lobby; i cui rampolli continueranno a frequentare costose ed elitarie scuole private, finanziate da quello stesso Stato che non possiede risorse sufficienti per garantire il diritto all’istruzione pubblica.
Del resto è di gran lunga più semplice, e sicuro, governare un popolo che non possieda i ente avrà di essere “selezionato” dal preside manager, che potrà scegliere il proprio team di insegnanti, basandosi su nebbiosi criteri di merito e trasparenza. i mezzi culturali necessari a opporsi a un tale stato di cose.
Seguono svariate firme