Sono un’insegnante precaria che da qualche anno lavora nelle scuole medie delle periferie di Palermo.
Pochi giorni fa mi sono imbattuta in un articolo che titolava “Se la scuola è casa: Sicilia al primo posto. Ecco come funziona” e che dava alla Sicilia il primato di poter contare il maggior numero dihomeschooler.
In quegli stessi giorni partecipavo a discutibili consigli di classe in cui il Dirigente Scolastico notificava l’avvenuta istanza di istruzione familiare per ben due alunni in una sola classe.
Vorrei con queste righe proporre la mia chiave di lettura di questo fenomeno, spiegare come mai la Sicilia stia diventando terra di precettori e denunciare una pratica assai anomala che si sta diffondendo nelle scuole dei quartieri a rischio della mia città, scuole che – quando non riescono a gestire ragazzi dai comportamenti problematici – indirizzano le famiglie a un percorso di istruzione parentale.
L’Istruzione parentale è un particolare percorso formativo regolato dal Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297, art. 111 e Decreto Legislativo 25 aprile 2005, n. 76, art. 1, comma 4. Entrambi i decreti recitano che:
“I genitori, o chi ne fa le veci, che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione dei propri figli, ai fini dell’esercizio del diritto-dovere, devono dimostrare di averne la capacità tecnica o economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità, che provvede agli opportuni controlli.”
Secondo buon senso, l’istruzione parentale è scelta da quelle famiglie che possono garantire al minore un percorso formativo migliore rispetto a quello scolastico tradizionale.
La richiesta d’istruzione parentale deve, in ogni caso, venire dalla famiglia; al Dirigente scolastico rimane il compito di verificare la sussistenza dei requisiti necessari (capacità tecniche ed economiche della famiglia) per la buona riuscita del progetto educativo.
E invece, nelle periferie urbane, è proprio la scuola, incapace di gestire situazioni problematiche di ragazzi che hanno alle spalle percorsi assai tortuosi, che propone alle famiglie l’opzione dell’istruzione familiare.
Succede così che famiglie di quartieri svantaggiati producano sempre più spesso, in maniera (in)consapevole, istanza di istruzione parentale (4 richieste addirittura in una classe di 20 ragazzi).
Il paradosso arriva quando una famiglia seguita dai servizi sociali, presentata formalmente richiestadi istruzione parentale per il proprio figlio,già individuato come BES per motivi di svantaggio socio-economico, sia convinta che il proprio figlio sia stato espulso dalla scuola.
Com’è possibile?
L’escamotage per aggirare e capovolgere la norma è presto trovato: la scuola dice che non sarà la famiglia ad occuparsi direttamente dell’istruzione del minore, essendo più che evidente che non ha mezzi ne tecnici né economici per poterlo fare. Subentra allora l’associazione, l’istituto di turno a garantire che il minore sia seguito nel suo percorso formativo all’interno della struttura. Poco male. Se questi enti avessero essi stessi mezzi almeno tecnici (glisso sulle risorse economiche) per il raggiungimento dell’obiettivo.
Ma gli operatori di questi enti sono spesso sottoposti a un turn-over permanente, sono sottopagati, sono stagisti, tirocinanti più o meno volontari e più o meno volenterosi, privi delle competenze necessarie.E questo è l’aspetto meno grave.
È molto più preoccupante e pericoloso il fatto che detti enti rispondano assai spesso alla logica delle classi differenziali. Siamo tornati indietro di almeno mezzo secolo.
Questa è la scuola dell’inclusione, patinata di acronimi e note ministeriali, velocissima nel ridurre ogni studente a una sigla e ad escludere proprio quei ragazzi che più di tutti dovrebbero trovare nella scuola una struttura accogliente e veramente inclusiva.
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