Nelle scuole superiori si studia poco la storia più recente. La nostra testata ha citato l’appello dello storico Gianni Oliva in proposito. Non si può ignorare la storia a noi più vicina.
Tra gli argomenti più interessanti per i nostri studenti è la storia del primo esperimento di economia neoliberista, realizzato 50 anni fa in un lontano Paese del Sudamerica e poi adottato su scala mondiale, creando il contesto economico e geopolitico nel quale tutto il pianeta si trova oggi a vivere.
Quel Paese è il Cile. Sull’argomento esiste una letteratura sconfinata: si può consigliare agli studenti la lettura di Tomàs Moulian, Una rivoluzione capitalista (editore Mimesis 2023).
L’11 settembre 1973 il brutale colpo di Stato del generale Augusto Pinochet — sostenuto da CIA e governo USA (con Richard Nixon presidente e Henry Kissinger segretario di Stato) — rase al suolo la precedente democrazia parlamentare cilena. Salvador Allende, presidente democraticamente eletto nel 1970, morì “suicida” in circostanze poco chiare dopo il bombardamento del palazzo presidenziale da parte dell’aviazione fedele al generale golpista.
Nei mesi, negli anni seguenti 130.000 persone vennero arrestate. Di queste, 40.000 sparirono (in gran parte drogate e gettate nell’Oceano durante i “vuelos de la muerte”). Tutte subirono interrogatori violenti, torture, stupri, fin dai primi giorni: quelli in cui lo Stadio Nazionale di Santiago divenne un enorme campo di prigionia.
Nel 1975 il “Plan Condor” prevedeva l’alleanza tra i maggiori Stati sudamericani per eliminare fisicamente tutti gli oppositori (cileni e non solo), anche all’estero. Utile, per introdurre in classe l’argomento, il documentario “La memoria del condor”, reperibile su RaiPlay.
Perché tanto orrore? Quale lo scopo reale? Quale colpa doveva scontare il popolo cileno secondo i militari che presero il potere?
“Colpa” gravissima: quella di aver mandato al potere Allende, marxista dichiarato. Il quale però non mirava a realizzare una dittatura comunista, ma “la via cilena al socialismo”: una politica keynesiana di lavori pubblici per diminuire la disoccupazione (come aveva fatto F. D. Roosevelt negli USA); e poi nazionalizzazioni, e aiuti concreti ai ceti più poveri. Al presidente non fu perdonata la riforma agraria, che affrontava finalmente la plurisecolare maledizione del latifondo, espropriando solo le proprietà maggiori di 80 ettari (160 campi di calcio!) per distribuire la terra ai nullatenenti e aumentare il numero dei piccoli proprietari, creando una classe media che avrebbe potuto risollevare l’economia del Paese. Da sempre in Cile erano enormi le sperequazioni sociali tra un’infima minoranza di straricchi e una massa di diseredati. Ne parla diffusamente la grande scrittrice Isabel Allende in “La casa degli spiriti” e in “Paula”.
Altra “colpa” di Salvador Allende: aver nazionalizzato tutte le miniere di rame, togliendone il monopolio alle corporation statunitensi senza nemmeno risarcirle. Altro “peccato” ancora: l’aver varato una riforma scolastica per portare la scuola pubblica ovunque, sottraendo le masse analfabete all’ignoranza e alle scuole private cattoliche; e una riforma sanitaria che avrebbe permesso di curare tutti a spese dello Stato.
Riforme marxiste, dunque? No. Democratiche, piuttosto. Ma tanto bastò per coalizzare contro il governo socialdemocratico di Allende la reazione di chiesa cattolica, latifondisti, imprenditori della sanità privata, multinazionali nordamericane.
Consolidato il regime di Pinochet, il Cile divenne il laboratorio ove si sperimentò quanto sarebbe poi stato fatto da Margaret Thatcher dal 1979 al 1990 nel Regno Unito, nonché da Ronald Reagan dal 1981 al 1988 negli USA, dai governi italiani e da tutto il pianeta dopo il 1989. Lo smantellamento dello stato sociale: quel welfare che proteggeva i cittadini dai pericoli insiti in un’economia di mercato (“libera volpe in libero pollaio”) e li aiutava nelle difficoltà. È appunto questo aiuto che l’articolo 2 della nostra Costituzione definisce “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, e che l’articolo 3 chiama «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» se «impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Dopo il golpe, in Cile si privatizzò tutto il privatizzabile. La redistribuzione della ricchezza fu impedita. La progressività delle imposte venne distrutta. Il mercato del lavoro fu “liberalizzato”, privando i lavoratori delle salvaguardie giuridiche. L’anti-statalismo divenne imperante (tranne quando serviva per aiutare le imprese private). Fu esaltato l’eroismo dei militari che avevano “salvato” il Paese dal “comunismo”. Si mirò al pareggio di bilancio a tutti i costi, anche se ciò significò fame per moltissimi. Si aprì del tutto l’economia al commercio internazionale.
Politica affine a quella del fascismo: il quale, anche dopo la crisi del 1929, aveva concepito l’intervento statale nell’economia come mero sostegno strategico al grande capitale. Socializzazione dei costi, insomma, e privatizzazione dei profitti.
I risultati si videro. Proibiti sciopero e libertà politiche e sindacali, il capitalismo fiorì, il PIL esplose per il ritorno delle multinazionali, per il commercio, per l’aumento della produttività: cosa che era accaduta, d’altronde, anche nella Germania di Hitler dal 1933 al 1939.Trionfarono le dottrine di Milton Friedman, dei “Chicago Boys”, di Friedrich Von Hayek, di Vilfredo Pareto (economista stimatissimo da Mussolini).
Mezzo secolo dopo, il mondo intero funziona ed è organizzato tutto secondo le medesime dottrine. Ecco perché il golpe cileno ha un‘importanza globale, che deve essere conosciuta per capire il contesto in cui viviamo.
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