Sono oramai o per lo più le percezioni individuali quelle che ci guidano in questo mondo sconquassato. Tanto da essere diventati negli ultimi anni più diffidenti delle conoscenze e delle competenze certificate.
Contano oggigiorno, cioè, quasi solo le nostre sensazioni, col risultato di affidarci per lo più al ripetuto “a me pare così, dunque è così”. Come se l’apparire e l’essere fossero sovrapponibili.
Potremmo dire, in generale, che ciò che differenzia ad esempio la buona dalla cattiva politica, al di là di sigle ed etichette, è proprio il non essere succubi delle sole percezioni. Le quali vorrebbero così governare un consenso che, invece, è molto mobile, appunto perché fluido come le stesse percezioni.
E’ difficile, ad esempio, fare scuola quando lo sfondo della domanda di sapere si ritrova incapace di comprendere la distinzione tra opinare e conoscere. Lo stesso per tutte le forme di relazione.
Sugli immigrati, come argomento più eclatante, ogni discorso sembra arenarsi e non trovare via d’uscita. Si discute quasi solo per luoghi comuni. Non dovrebbe essere inutile ribadire che i fenomeni, come quello migratorio, conseguenza di variabili più grandi di noi, o si impara a governarli, oppure saremo costretti a subirli. E governarli con sguardi multipli, di concerto: la vecchia Europa è anzitutto su questo punto che si sta giocando la sua credibilità. Visti gli squilibri demografici.
Andando al sodo, dovremmo provare a ragionare su una questione semplice, e che dovrebbe essere da tutti condivisa: la condizione per la cittadinanza non è dove si nasce, ma il percorso di studi o di corso professionale, condividendo comuni aspirazioni di futuro.
Perché è o dovrebbe essere la domanda di futuro il cuore di questa nuova lettura.
Già nella passata legislatura, per responsabilità di tutti i partiti, si è lasciata sfumare, per mancanza di coraggio e di visione, la possibilità di risolvere il grande tema dei bambini, figli di stranieri, che sono cresciuti in Italia ma senza cittadinanza italiana.
Una proposta era stata approvata alla Camera, ma non fu completata al Senato, per i soliti timori elettorali. Un grave errore.
L’Italia, lo sappiamo, essendo un Paese di transito dovrebbe puntare sullo ius culturae, superando gli automatismi dello ius solis e dello ius sanguinis. Per valorizzare il processo di integrazione dei bambini, figli di stranieri, nati in Italia o arrivati nel nostro Paese.
Studi, cultura e lingua, cioè, portano a integrarsi, mentre si condividono le comuni aspirazioni di futuro. E tutto questo è in linea con la nostra storia nazionale, come ha certificato il grande storico Federico Chabod, un percorso fatto di volontà e cultura, non etnico.
Oggi in Italia si è perso quel sano realismo che il presidente Ciampi anni fa aveva più volte invocato. Nel mentre il tema dell’immigrazione fa emergere quel sentimento di paura, alimentato da una certa comunicazione su dati non reali, che si nasconde nel cuore di una popolazione, non solo italiana, invecchiata e sempre più spaesata.
Ma, nel mentre noi ci troviamo sempre più disorientati, la realtà ci sta dicendo, citando una provincia del profondo nord (Vicenza), che gli immigrati sono il 13% dei lavoratori, sul 9,5% della popolazione, con un versamento Irpef pari a 200 milione, in Veneto un miliardo.
Come rispondere al sentimento di paura? Investendo in iniziative culturali, di comprensione di mondo che sta cambiando forse troppo velocemente.
Questo investimento aiuterebbe anche la comunicazione, ai vari livelli, a disintossicarsi, e a comprendere che, in realtà, l’immigrazione è una goccia dell’oceano di una paura dell’altro, compresi i vicini di casa, che rischia di produrre una rincorsa alla violenza senza limiti. Come leggiamo purtroppo tutti i giorni.
Un esempio di comunicazione falsata sul nesso immigrati e violenza?
Quando, in alcuni servizi, si presenta un caso di violenza, e si cita il rimando all’etnia (ad esempio) africana, si mettono assieme due entità distinte. Quasi a dire che tutti gli africani di una data etnia sono violenti. Un errore conoscitivo. Perché non c’è un nesso causa-effetto.
Ritorniamo dunque alla domanda di conoscenza, che anzitutto è dubbio metodico, sapendo che la libertà è sempre responsabilità, che la responsabilità è personale, per cui ognuno ha diritti e doveri. Con sullo sfondo una sensibilità sociale, per cui la capacità di leggere anche le contraddizioni deve diventare la nostra compagna di strada. Se si vuole cercare un po’ di giustizia in questo mondo.
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