Attualità

Come salvare la (ex pubblica) istruzione: qualche suggerimento per il futuro ministro

Revanscista, postfascista o pre(s)fascista che sia, il prossimo ministro di Viale Trastevere, se vuol passare alla storia come colui che ha salvato la Scuola italiana, dovrà prendere decisioni in controtendenza rispetto agli ultimi 30 anni. Da dove iniziare? C’è solo l’imbarazzo della scelta.

Primo: insegnare (e lavorare a scuola) non è lavoro impiegatizio

Per cominciare, dovrebbe riconoscere che gli insegnanti non sono impiegati (come non lo sono i collaboratori scolastici, gravati dalla responsabilità penale della vigilanza sui minori), e che gli impiegati non sono insegnanti.

I docenti l’hanno ormai dimenticato, ma la loro condizione attuale di subordinazione impiegatizia, i loro salari da fame, la loro sensazione di esser pressati come travet di un’azienda industriale privata, derivano dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (all’epoca appoggiato dai sindacati maggiori): il quale, privatizzato il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego, vi fece entrare i docenti delle scuole (ma non quelli universitari, pur caratterizzati dalla medesima funzione docente). Da allora impiegati e docenti di scuola sono sottoposti al diritto privato; restano invece in regime di diritto pubblico (e si guardano bene dal farselo togliere) magistrati, polizia, vigili del fuoco, personale delle carriere diplomatica, prefettizia e dirigenziale penitenziaria, avvocati e procuratori dello Stato, militari; e docenti universitari, appunto.

Secondo: smettere di “risparmiare” sui salari di docenti e ATA

Perché questa differenza di trattamento tra pubblici dipendenti (come tra figli e figliastri)? Intanto perché essa ha permesso allo Stato italiano di risparmiare miliardi sulla pelle dei “figliastri”. Infatti lo stesso Decreto Legislativo tagliò immediatamente gli scatti stipendiali dei docenti, che da biennali divennero di colpo sessennali e settennali (nonché passibili di “congelamento”, come avvenuto allo scatto del 2013). Stabilì inoltre che gli aumenti stipendiali del Pubblico Impiego (e quindi anche di docenti e ATA) non potessero superare una percentuale dell’inflazione “programmata” dal ministro dell’economia. Quindi, se anche l’inflazione supererà il 12%, pure nel prossimo contratto (già ampiamente scaduto da quasi quattro lunghi anni) ai docenti di scuola toccheranno le solite poche decine di euro di “aumento”; senza che nessun ministro o sindacalista “maggiormente rappresentativo” arrossisca.

Ma si sa, certe verità i TG non le dicono, pochi giornali (come il nostro) le scrivono, e dunque non attecchiscono nella consapevolezza comune. Perciò, avanti sulla via dell’aziendalizzazione: quella via che il prossimo ministro — come dicevamo, —dovrebbe invertire, giacché, da quando è stata imboccata, i risultati della Scuola italiana sono vistosissimamente peggiorati (come tutti riconoscono a livello nazionale e internazionale, senza però fare 2+2).

Prèsidi “primi inter pares” e mobilità interna per i docenti

L’ipotetico illustre nuovo ministro — di cui favoleggiamo — dovrebbe perciò anche riconoscere che neppure trasformare i prèsidi in dirigenti è stata una buona idea; proprio perché corollario dello stesso Decreto legislativo di cui sopra, che tramutò il capo d’istituto in “datore di lavoro” (quasi fosse il presidente della FIAT), lasciando invece — giustamente — che presidi e rettori universitari fossero eletti da docenti universitari.

Altro compito per il nostro futuro, eroico ministro: eliminare le recenti geniali trovate circa la “formazione” dei docenti e pensar seriamente a creare per i docenti una mobilità interna bidirezionale (ascendente e discendente), che permetta una reale carriera, culminante con il livello universitario per i docenti interessati, e riguardante le scienze della formazione, la ricerca didattica e metodologica, la formazione dei nuovi insegnanti. Qualcosa di molto diverso, insomma, dalla fantasiosa, estemporanea e compulsiva progettualità didattica attuale.

Assumere decine di migliaia di ATA

Utile per il funzionamento della Scuola sarebbe anche rimpinguare i ranghi del personale ATA, cronicamente sotto organico da dodici anni. Il nuovo ministro deve assumere almeno 30.000 collaboratori scolastici, necessarissimi per la vigilanza degli alunni, che è tra i primi compiti dell’istituzione Scuola, alla cui sicurezza i genitori affidano i propri figli!

Non meno importante l’assunzione in pianta stabile di almeno 9.000 assistenti amministrativi, dato che gli attuali non ce la fanno a svolgere l’immensa mole di lavoro che grava sulle loro spalle (scaricata spesso, infatti, sui docenti “coordinatori”, benché estranea alla funzione docente, già gravosa di per sé).

Grave è anche il problema dell’esternalizzazione dei servizi nelle scuole, che va abolita. Tra gli ex “Lavoratori Socialmente Utili”, infatti, alcuni sono stati impiegati dalle scuole nel personale ATA ai sensi dell’art. 23 della Legge 11 marzo 1988, n. 67, perché assunti presso cooperative private, cui sono stati appaltati i servizi di pulizia nelle scuole. Vanno tutti stabilizzati nella Scuola, come pure i “Lavoratori di Pubblica Utilità”, vista la mancanza di personale e i diritti maturati.

Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà

Possiamo sperare che queste prime iniziative per raddrizzare la Scuola italiana siano nell’agenda del nuovo ministro dell’istruzione? Il pessimismo dell’intelligenza ci suggerisce una risposta negativa: conosciamo bene l’orientamento dominante i “salotti buoni” della politica e della finanza nazionali e mondiali. Tuttavia la nostra inveterata abitudine all’ottimismo della volontà — sforzo disumano nell’Italia di oggi — non ha ancora ucciso la nostra speranza.

Alvaro Belardinelli

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