Il 20 marzo scorso ne è stata celebrata la Giornata internazionale e qualche giorno fa il quotidiano Il Resto del Carlino ha presentato uno studio realizzato dal Meyer Center for Health and Happiness insieme all’Università di Firenze, che ne analizza l’impatto sugli adolescenti: parliamo, ovviamente, della tanto agognata quanto inafferrabile felicità, che ciascuno tende a declinare alla sua maniera, proprio per le evidenti difficoltà che si incontrano nel definirla.
Per l’enciclopedia Treccani, la felicità è lo stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato. Il dizionario della casa editrice Hoepli ritiene che è felice la persona che si sente compiutamente paga e serena, avendo raggiunto la piena soddisfazione di un desiderio, di un bisogno materiale o spirituale.
Sì, ma, concretamente, come si misura la felicità? Per i circa 1700 ragazzi toscani intervistati sono sei le dimensioni esistenziali che possono essere assimilate all’idea di felicità: la prima è quella dell’importanza di avere relazioni interpersonali positive e appaganti. Viene poi la soddisfazione di fare le cose che piacciono, seguita, in terza posizione, dalla consapevolezza di vivere emozioni positive, in una sorta di sospensione da ogni preoccupazione o pressione. Scolastiche, giusto per fare un esempio…
Dalla quarta alla sesta posizione arrivano il senso di autorealizzazione, quello di padronanza delle varie situazioni che si trovano ad affrontare e un ottimismo di fondo che deve caratterizzare la vita.
Altro dato interessante: più si dichiarano felici, più gli adolescenti risultano empatici e solidali, sanno gestire meglio le proprie emozioni e hanno in genere una buona immagine di sé.
Dalla ricerca viene fuori, poi, che i maschi tendono generalmente a essere più felici rispetto alle femmine e i più piccoli (fino ai quindici anni) sono più felici rispetto ai più grandi (dai sedici ai diciotto anni).
Più si cresce, dunque, e meno la felicità appare come un obiettivo facilmente perseguibile? Come se, con l’aumento della consapevolezza critica, ci si avvicinasse “pericolosamente” alla celebre idea di Madame de Staël secondo cui solo gli spiriti mediocri sono, in generale, abbastanza soddisfatti della propria vita. Al contrario, le grandi opere sono il risultato del sentimento doloroso, che l’uomo ha, dell’incompiutezza del suo destino. Sarà davvero così?
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