È stata pubblicata l’XI edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, a cura di Save the Children. La ricerca condotta parla chiaro, in termini di numeri e cifre critiche, a partire dalle nascite, per cui risulta che in Italia negli ultimi dieci anni i minori sono 385 mila in meno e l’incidenza degli under 14 nella popolazione è la più bassa dei Paesi europei (13,2%). Secondo le ultime previsioni dell’Istat potrebbe esserci una ulteriore riduzione, portando le nuove nascite a quota 393 mila nel 2021.
Altro dato che fa riflettere è che 1 milione e 137 mila minori in Italia si trovavano nel 2019 in condizione di povertà assoluta, l’11,3% del totale, un numero quadruplicato nell’ultimo decennio.
L’aumento della povertà educativa inizia fin da subito, perché solo il 13,2% dei bambini nello scorso anno scolastico ha avuto accesso agli asili nido offerti dai Comuni. Cosi come la scuola dell’infanzia è un diritto soggettivo per tutti i bambini, affermano i ricercatori di Savethe Children, così deve essere l’asilo nido perché, oltre a sostenere l’occupazione femminile, è anche un potente strumento di contrasto alla povertà educativa.
Ma anche nel percorso di crescita, gli indicatori di povertà educativa confermano una situazione grave già prima dell’emergenza generata dalla pandemia: il 24% non raggiungeva le competenze minime in matematica e in italiano, il 13,5% abbandonava la scuola prima del tempo e più di 1 su 5 andava ad incrementare l’esercito dei NEET, cioè di coloro che non studiano, non lavorano e non investono nella formazione professionale.
Il focus della ricerca è sulle bambine, e il dato allarmante che emerge è che140 mila ragazze tra i 15 e i 29 anni rischiano, entro la fine dell’anno, di ritrovarsi nella condizione di non studiare, non lavorare e non essere inserite in alcun percorso di formazione, rinunciando così ad aspirazioni e a progetti per il proprio futuro. Divari di genere che si ripercuotono anche sul fronte occupazionale, con un tasso di mancata occupazione tra le 15-34enni che raggiunge il 33% contro il 27,2% dei giovani maschi. L’istruzione resta un fattore “protettivo” per il futuro delle ragazze, ma tra le neolaureate che hanno conseguito il titolo di primo livello nei primi sei mesi del 2019, solo il 62,4% ha trovato lavoro, mentre per i laureati maschi – si è passati dal 77,2% al 69.
Gli effetti della pandemia sul futuro dei minori in Italia rischiano di essere ancora più pesanti sulle bambine e sulle ragazze, benché siano più brave dei loro coetanei a scuola, abbiano meno bocciature e abbandoni scolastici, si mostrino più resilienti e cooperative, abbiano competenze maggiori in lettura e in italiano e arrivino a laurearsi molto più dei ragazzi.
L’istruzione rappresenta il principale fattore protettivo per le giovani all’ingresso nel mondo del lavoro e il fallimento formativo le espone ad un futuro lavorativo fatto di difficoltà e di rischi. Una percezione che spinge a studiare fino ad ottenere una laurea un terzo delle giovani, a fronte di solo un quinto dei giovani maschi, uno dei gap più ampi d’Europa: tra le 30-34enni il 34% è laureata, mentre tra i 30-34enni maschi lo è solo il 22%.
Le bambine e le ragazze accumulano durante il loro percorso scolastico delle lacune nelle materie scientifiche, già ravvisabili dal secondo anno della scuola primaria, ma che crescono via via; secondo i dati forniti a Save the Children dal Miur relativi al 2019, tra i diplomati nei licei i ragazzi sono più presenti in quelli scientifici, mentre le ragazze sono più presenti nei licei umanistici-artistici. Quando si iscrivono all’università, poche scelgono le facoltà in ambito scientifico-tecnologico (STEM): solo il 16,5% delle giovani laureate tra i 25 e i 34 anni ha conseguito il titolo in questo settore, a fronte di una percentuale più che doppia per i maschi.
Ma impegno, tenacia e dedizione allo studio sembrano non bastare: nonostante i migliori risultati durante il loro percorso, gli ostacoli e gli svantaggi attendono le giovani al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro. In generale, infatti, l’Italia detiene uno dei tassi di occupazione femminile più bassi in Europa.
Persino nel mondo accademico, i divari di genere sono ancora forti: basti pensare che nel 2018 le donne rappresentavano il 55,4% degli iscritti ai corsi di laurea, il 57,1% dei laureati, il 50,5% dei dottori di ricerca. Ma pur essendo maggioranza nei percorsi di formazione universitaria, restano delle Cenerentole nella carriera accademica, sin quasi a scomparire ai vertici. Nel 2018, le donne rappresentano il 50,1% degli assegnisti di ricerca, il 46,8% dei ricercatori universitari, il 38,4% dei professori associati, il 23,7% dei professori ordinari.
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