“Con la testa fra le nuvole”
di Sabrina Sapienza
IV Scientifico A Liceo paritario “Don Bosco” di Catania
Piove, nella cittadina di Dieuville. Piovono gocce grosse come lacrime, ma le parole sono ancora più abbondanti, cadono a fiotti in un bar del centro. Un cameriere talvolta passa e li vede ancora lì, quei due, teme quasi che resteranno per sempre ad occupargli quel tavolino nel suo bar di Dieuville. Li vede, o meglio, li sente litigare.
– E smettila di urlare!
– Abbasserei il tono se non mi servisse a superare quello delle tue stupidaggini!
All’improvviso (Qualcuno lo ha visto entrare?) arriva un vecchio (No, nessuno ha sentito i suoi passi felpati: è arrivato e si è seduto lì accanto) e prende il tavolo vicino a quello dei due uomini (Te lo giuro, il cameriere gliene aveva anche proposto uno più silenzioso, ma niente, ha insistito proprio e trascinato la sua barba bianca dove aveva scelto).
– Se posso permettermi, di cosa discutete in modo così “pacato”?
L’omino li guarda con occhi che riscoprono l’autentico significato del termine “pacato” e i due zittiscono di colpo.
– Di niente- dice uno.
– Di tutto- aggiunge l’altro.
Silenzio. Il vecchio (Mai nessuno che lo senta quando si muove, ti dico) prende una sedia e si unisce alla comitiva.
– Non volevamo disturbarla. Lo scusi, il mio amico dice cose che non stanno né in cielo né in terra.
– Veramente in cielo stanno.
– Ecco, vede, signore, il fatto è che lui insiste e non c’è modo di…
– In cielo? Ne deduco che parliate di… volatili?
– Ah, questa è bella! Sentito, Javier, ti ha appena dato dell’ornitologo!
– Molto divertente, Hugo. Tanto per chiarire: io non sono un ornitologo, sto per diventare novizio.
– Congratulazioni! – replica il vecchio- E invitava il suo serafico interlocutore a fare altrettanto?
– Affatto, stavamo solo discutendo su Dio.
– Stava monologando: non riesce a capire che è qualcosa d’illogico anche solo supporne l’esistenza.
– E perché mai, se mi è concesso chiederlo?
Il quasi-novizio Javier sorride, Hugo un po’ meno.
– Perché esiste la bruttezza.
– Come, prego?
– Ha sentito benissimo: la bruttezza, la guerra, la morte, le catastrofi…
– … E i non credenti- aggiunge Javier, che ha dimenticato cosa sia l’arrendevolezza.
– Signor… Hugo, giusto? È nobile che lei riempia la banale quiete di un bar con urla su così alti argomenti, ma mi consenta di rimediare al vostro diverbio con un elementare sistema: ci verrà incontro la discreta scienza della matematica.
(Che in parole povere vuol dire…?)
(Vuol dire che il vecchio prende da un distributore un tovagliolo di carta, lo piega in due in modo perfetto- a Javier sembrava inopportuno dirgli che lo stesse facendo “da Dio” – e inizia a scriverci sopra con calligrafia ordinata).
Il vecchio traccia una sorta di breve tabella: scrive da una parte allora sì e dall’altra allora no. Così. Dal nulla. Sconosciuto con occhi di carta che leggono dentro quelli di carne di due uomini che non ha mai visto prima.
– Le concedo l’onore di iniziare, Hugo.
– La ringrazio, ma guardi, va tutto bene, i principi di una vita non crolleranno mica per un pretonzolo e un tovagliolino di…
– Vuole giocare o no, scusi?
– E va bene, ma ricordi che…
– Perfetto. Inizierei dalle origini. Big Bang.
– Fin troppo facile: è scientificamente provato che tutto abbia avuto origine da una reazione chimica.
– Glielo spiega lei che Dio ne è l’autore?–sbuffa Javier.
– Con calma, signori: appunterò entrambe le vostre ragioni.
– Dal Signore originano tutte le creature: quale bellezza più grande di questa?
– Paleolitico: e se le creature si offendono e uccidono, la bellezza dov’è?
– Paleolitico: nelle pitture rupestri. Avevano bisogno di esprimere il bello che vedevano e riuscivano a trovarne anche in mezzo ad animali selvaggi e in una capanna dotata solo di fuoco. Appunti anche questa, mio caro.
– Sì, e ci aggiunga pure che quegli stessi grandi artisti sono morti in due diverse glaciazioni!
Appuntava, il vecchietto, appuntava con grafia impeccabile, tentando di tenere il frenetico ritmo delle parole di quei due e dovendo più volte prolungare la lista aggiungendovi nuovi tovaglioli. Venne fuori che il Medioevo era stato un periodo terribile- ma se nasce lì la Divina Commedia! – e che anche nel Rinascimento, malgrado le continue menzioni da parte di Javier di Lorenzo de’ Medici, Botticelli e dell’architettura fiorentina tutta, le guerre c’erano state (E scusa, la Cappella Sistina non l’ha neanche nominata?) nonostante il continuo fiorire (Certo, si è fermato descriverne il soffitto per un quarto d’ora, e quel vecchietto continuava a scrivere e annuire) dell’arte. Per non parlare poi del Manierismo di inizio Seicento, delle corti illuministiche, della perenne lotta tra scienza e ragione, della Rivoluzione Francese – e qui Hugo aveva sentito di essere in vantaggio,ma l’altro aveva risposto con mille nomi di opere e di sviluppi e di scelte giuste; la gola cominciava ad infiammarglisi quando il futuro prelato nominò le montagne e Hugo le gallerie, i mari e Hugo l’inquinamento, i cani e Hugo i canili, i sorrisi e Hugo le dentiere, le altalene…
Le altalene. Hugo si ferma e il vecchio sorride, smette di scrivere e ridacchia tra sé come se avesse indovinato, dal divano di casa sua, la parola vincente di un quiz televisivo: intime e sterili soddisfazioni.
Le altalene. Hugo aveva cinque anni, non fumava ancora quel sigaro che pendeva dal portacenere del tavolino, sorrideva spesso e senza motivo, come si sorride davvero. Un giorno sua madre- ne ricordava il profumo- lo aveva portato su una spiaggia e a una ventina di metri c’erano loro: altalene. Lui non ne aveva mai vista una (Come fa un bambino di cinque anni a non aver mai visto un’altalena!) e ne rimase sorpreso (Che ne so: Hugo è un tipo strano).
– Cos’è quella?
Aveva chiesto stupito ad un uomo lì accanto.
– Un’altalena.
Ora che ci pensava meglio, o forse era un inganno dettato dalla foschia ormai sparsa sui ricordi, quel tizio somigliava (E anche parecchio, dice sempre lui) a quell’anziano signore seduto adesso al tavolo con loro: (Sarà stato un caso, no?) o almeno il taglio degli occhi e della barba (Dopo una storia del genere credi ancora al caso?) era molto (In effetti no) simile.
– Altaché?
– Altalena.
– E che vuol dire?
– Alta + lena. “Lena” vuol dire respiro, ma anche volontà nel sopportare la fatica. “Altalena” è come respirare il paradiso, è come superare se stessi e puntare molto più in alto.
E qui Hugo acquisì quella che sarebbe diventata la sua tipica espressione scettica:
– Proviamo.
E qui Hugo comprese che, se il barbuto non lo stava ingannando, il paradiso doveva avere un odore buonissimo. Una spinta da dietro e quello gli entrò nelle narici e nell’anima.
– Com’è la vista da lì? Cosa vedi?
Sabbia mare cielo nuvole sabbia mare cielo nuvole.
– Figliuolo, tutto bene?
Sabbia mare cielo nuvole sabbia mare cielo nuvole, e…
– Signora, non si preoccupi, è soltanto felicità…
Sabbia. Mare. Cielo. Nuvole. E bellezza.
Ma non bellezza così per dire, era proprio lei, la Bellezza, quella che gli uomini vanno inseguendo e cercando per tutte le loro contorte vite, poveri illusi a credere che si compri; no, Bellezza è gratuita e la trova un bambino seduto su un’altalena nel semplice fissare il paesaggio che gli scorre sotto gli occhi; Bellezza era sabbia, mare, cielo, nuvole, il profumo di sua madre, la barba dello sconosciuto, quello che ricordava degli occhi chiari di suo padre, l’acquolina in bocca prima di assaggiare una torta, i fiori vivi e quelli essiccati dalla maestra tra le pagine di un libro per poi offrirli come lavoretti ai genitori, era sentirsi in circolo il paradiso, tutto quello iodio e quello splendore in giro nel corpo, era sentire di avere un senso, in quel momento lì sembrava tutto studiato, tutto perfetto, sembrava quasi che Dio- Dio!- li avesse disposti come marionette in posa perché potessero assorbire come piante tutta la bellezza possibile; e ce n’era così tanta che i motivi per cui credere e sperare si rigeneravano nonostante l’olezzo grigiastro emanato dal mondo, ce n’era così tanta che…
– Hugo?
– Signor Hugo, tutto bene?
– Pensavo, stavo solo pensando.
– Ah, vedo che si è ripreso!
– Mi sono ripreso la Bellezza.
Disse proprio questo, ma lo fece pianissimo e condì il tutto con un’occhiata significativa al vecchio, come se non gliela stesse raccontando giusta.
– Lei è mai stato, facciamo cinquant’anni fa, in Costa Azzurra?
– Credo.
– Crede?
– Dovresti farlo anche tu.
Così quell’omino, con lo stesso passo felpato e la stessa candida barba con cui era venuto, prese il suo cappello (Non te l’ho detto che portava un cappello?) e sorridendo “pacatamente” (Beh, Hugo dice sempre che ha visto un uomo con un cappello al bar…) se ne andò (…che odorava di paradiso).
E a Dieuville- e in quel bar- quelle gocce di pioggia grosse come lacrime cedettero il posto ad un perenne splendido sole.
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