Superare i concorsi nella pubblica amministrazione è diventata una vera impresa, con punte del 95% di bocciati, pure tra i magistrati: anche nella scuola. In occasione delle ultime prove per docenti della secondaria, con la proposizione delle quesiti risposta multipla introdotti un anno fa per volontà del ministro forzista Renato Brunetta (ma con il M5s contrario), le difficoltà sono ulteriormente aumentate. Tanto che il numero dei candidati non ammessi già dopo la prova pre-selettiva è stato di gran lunga più alto dei non ammessi. In alcune commissioni si è arrivati respingere dopo i 50 test a risposte chiuse addirittura più del 90 per cento degli aspiranti prof e tanti di loro si sono poi lamentati per l’eccesso di domande tecniche.
Le difficoltà riguardano, comunque, le prove d’accesso a tutti i pubblici concorsi. Anche quelli di alcuni anni fa. Pure per diventare preside.
Tanto che qualche partecipante al concorso ha pensato bene di procurarsi un “aiutino” utilizzando le nuove tecnologie: si sarebbe presentato al concorso per dirigente scolastico, svolto nel 2017, con auricolare, microfono e un complice all’esterno.
La Squadra mobile della Polizia di Vibo Valentia avrebbe accertato le irregolarità dopo le segnalazioni di altri candidati: gli agenti hanno verificato che il candidato avrebbe nascosto fra gli indumenti i dispositivi per comunicare con un complice all’esterno dell’area ove si svolgeva la prova: prima gli avrebbe dettato le domande della prova e una volta ricevute le risposte le ha trascritte sul foglio che ha poi consegnato. L’imbroglio gli avrebbe permesso di posizionarsi ai primi posti della graduatoria.
I due hanno così ricevuto in questi giorni un avviso di conclusione indagini da parte della Procura della Repubblica per partecipazione truccata alla selezione.
Va ricordato, a questo proposito, che su questo genere di reati è ancora in vigore la Legge numero 475 del 1925, che tutela la partecipazione ai concorsi della pubblica amministrazione salvaguardando la fede pubblica.
La stessa legge prevede, per chi la infrange, la reclusione da tre mesi a un anno.
Un concetto ribadito tra l’altro una decina di anni fa dalla Corte di Cassazione, nell’emettere la sentenza n. 18826 del 2011.
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