La fase preselettiva del concorso per l’accesso alla dirigenza scolastica che si è svolta nei giorni scorsi, basata sulla memoria e non su reali conoscenze, è stata caratterizzata da sentimenti contrapposti tra chi ha superato la prova e tra chi, pur avendo alle spalle un curriculum d’eccellenza, è stato escluso.
Molto alta la percentuale dei docenti, uno su tre, che, invece, hanno preferito rinunciare alla fatica di mandare giù a memoria una batteria di 1500 quiz.
Importanti esponenti del mondo della cultura e della scuola hanno espresso il loro parere negativo su un mero esercizio mnemonico che, certamente, non serve per rendere più efficienti le varie istituzioni scolastiche.
Altri problemi riguardano, invece, alcuni aspetti tecnici e il misterioso algoritmo chiamato a valutare in tempo reale migliaia di prove. Nessun candidato ha avuto la possibilità di visionare la propria prova o, quantomeno, di avere copia o file della stessa per visualizzare le risposte sbagliate e confrontarle con quelle fornite dal Miur.
In molti, soprattutto coloro i quali sono rimasti esclusi anche per qualche decimo di punto, hanno lamentato problemi tecnici e riscontrato anomalie ed errori, sulla base dei criteri forniti dal Ministero: 1 punto per ogni risposta esatta, 0 punti per ogni risposta non data, – 0,3 per ogni risposta errata, nella assegnazione del punteggio. Qualche prova, addirittura, risultava dispersa.
Gli esclusi stanno già attivando le procedure per possibili ed eventuali ricorsi.
Tuttavia, al di là delle anomalie tecnico-procedurali che stanno creando non pochi problemi e alimentando sospetti, risulta difficile esprimere un giudizio positivo su un concorso che muove non da precipue indicazioni di carattere culturale o professionale, ma da gabbie, labirinti, itinerari con percorsi disseminati da false piste, per cui, a forza di tentativi ed errori, il candidato ben addestrato, ad un certo punto, per la legge dell’effetto, riesce ad andare subito alla celletta con il pezzo di formaggio gratificante.
Se questo è il futuro, non si può che paragonare la scuola ad una grande macchina dove tutto avviene secondo stimolazioni da percezioni stimolo-risposta, e non certo sulla base di precipue attività conoscitive, apprenditive e culturali. Il rischio è quello dell’artificio e dell’artificiosità che promettono e garantiscono i
più sicuri e rapidi successi, rendono il dirigente un bravo burocrate e i docenti esperti in lettura e letterale applicazione delle “superiori disposizioni” senza troppi grilli pedagogici e didattici nella testa. È il modello tipo della scuola-azienda e del preside-manager.
Questa mentalità che fa delle persone un “materiale da modellare e costruire”, va delineando un tipo di formazione utile per l’adattamento e per l’adeguamento produttivo e non per i valori di personalità, originalità, creatività, umanità.
L’educazione appartiene ad un mondo e ad un campo diversi: essa non è per una produzione, ma per una promozione, la promozione del soggetto, una promozione non in serie, ma in realtà qualificanti e personalizzanti.
Orbene, questa nuova idea inattesa e improvvisata della dirigenza che si pone tra il generico e il vacuo, che utilizza procedure selettive per tentativi ed errori, che va avanti senza meta nell’oceano avventuroso del cambiamento con la speranza di trovare nuovi cieli e nuove terre per nuovi e felici approdi, tarpa le ali, esclude, toglie prestigio e vanto a professionalità che, purtroppo, a causa di un prepotente e misterioso algoritmo non esente da errori, sono costrette a fare i conti con il caso ed a rimanere vittime della proverbiale locuzione latina: “Summum ius, summa iniuria” (somma giustizia, somma ingiustizia).
I problemi della scuola non si superano con il managerialismo, ma con le idee della ragione, l’energia della volontà e la forza dellacultura. Si pone allora il dilemma: managerialità della dirigenza o cultura
della dirigenza? Sicuramente una dicotomia che non si appresta a soluzioni simili alla contesa sull’elmo di Mambrino, il bacile del barbiere nella fantasia e nelle brame di don Chisciotte; onde: E’ un bacile – gridava il barbiere – Un elmo vociava don Chisciotte. La soluzione venne da Sancio Panza: Oh, questo bacilelmo!
Lo sappiamo tutti: la scuola non ha bisogno di spruzzatine aziendalistico-manageriali. La scuola deve necessariamente riappropriarsi della dimensione culturale della dirigenza e dell’insegnamento. Tanto nella dirigenza, quanto nella docenza, la cultura è un fattore essenziale e determinante per la vita della scuola e della stessa società.
Per secoli la cultura, intesa come perpetuo incremento di pensiero, di conoscenza, di sapere, etica, scienza, lavoro, tecnica ecc., ha rappresentato il patrimonio universale e indiscutibile del genere umano.
Ora, nonostante ci imbattiamo quotidianamente in un coro di deplorazioni, la società è in crisi, la cultura è in crisi, non si fa altro che minarla anche là dove essa dovrebbe sussistere con forza.
Occorre, in pratica, convincersi che la scuola poggia su tre agenti: alunno, docente e cultura. Il primo è l’agente primario, soggetto effettivo dell’educazione. Il secondo è agente sussidiario che stimola e sollecita l’alunno, il terzo è un agente dinamico per mezzo del quale l’educazione diventa un atto vivo e creativo.
Orbene, se proprio è necessario un managerialismo della dirigenza scolastica, sia almeno secondo i principi dell’educazione, della cultura, e in termini di cultura.
Ma per essere uomini di cultura occorre, ovviamente, essere persone che hanno cultura.
In questa prospettiva, il preside non può configurarsi come un semplice burocrate e tecnocrate. Deve essere una personalità operante secondo una mentalità aperta, secondo l’idealità di una scuola che è la sua scuola. Una scuola in cui si dispiega il vessillo della conoscenza e si diffonde il profumo della cultura.
Fernando Mazzeo
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