Investire nell’istruzione non comporta solo vantaggi formativi e culturali, ma anche economici. A sostenerlo è il Centro studi di Confindustria, che il 28 marzo ha presentato il volume ‘Il capitale sociale e umano: la forza del Paese’. Snocciolando concetti e numeri davvero importanti. Peccato che il rapporto arrivi dopo che negli ultimi anni i governi abbiano fatto a gara per tagliare risorse e organici.
Ora, però, secondo l’associazione degli industriali più istruzione porterebbe più lavoro e perfino più felicità. E più ricchezza: in termini pratici l’aumento in 10 anni del grado di istruzione italiano al livello dei paesi più avanzati innalza il Pil fino al 15% in termini reali, cioè 234 miliardi, con un guadagno di 3.900 euro per abitante.
Nell’ampio rapporto del centro studi di via dell’Astronomia, Confindustria ha lanciato anche lo slogan “people first”, per approfondire il tema del capitale sociale e umano come leva su cui puntare, “la forza del Paese”, “gli unici veri asset italiani”. Mentre, al contrario, “le carenze del capitale umano” sono “tra le debolezze strutturali che frenano lo sviluppo del Paese”.
Dall’analisi del Centro studi di Confindustria, al centro del convegno biennale che si apre oggi a Bari, gli industriali fanno emergere “sette lezioni”. La prima è un avvertimento: “la materia prima del capitale umano, cioè la popolazione, tende a diminuire, invecchia ed è mal utilizzata”. Tra l’altro “l’immigrazione la tiene su”. Seconda lezione: “La scuola italiana non è immobile e immutabile”, tra “forti progressi e gravi lacune”: nel sistema italiano le scuole medie sono “l’anello debole”, mentre alle superiori gli istituti professionali rappresentano il “tracollo”. La terza: “l’Università resiste alle forme e ai cambiamenti”; La quarta: “Studiare conviene anche in Italia”. La quinta lezione è: “Per aumentare il capitale umano migrazione e lavoro sono altrettanto cruciali”: l’Italia “attrae poche persone altamente qualificate”,”si fa poca formazione”. “e così l’Italia rimane indietro”. Sesta lezione: “I valori contano quanto i saperi”: oltre alle conoscenze servono valori come fiducia e cooperazione. E la settima ed ultima lezione: “Conta molto la collaborazione tra mondo dell’istruzione e imprese”: i giovani italiani, emerge dai dati del CsC, sono “poco occupati e con meno competenze”.
Ma c’è anche un altro dato che è emerso. Quello relativo al fatto che l’ascensore sociale in Italia continua a restare pressoché bloccato: “povertà economica e povertà di conoscenza sono strettamente legate”. Tanto che solo il 9% dei giovani arriva al traguardo della laurea se ha genitori con bassa istruzione contro il 64% dei laureati figli di laureati. In Italia, sottolinea infatti il rapporto, “l’istruzione funziona molto poco come scala sociale perché continua a studiare chi ha genitori più istruiti… e chi ha redditi più elevati”. Se il padre ha la laurea, nell’80,1% dei casi il figlio studia (la percentuale scende al 55,1% se il padre ha il diploma, addirittura al 27,4% se il padre ha la licenza media). Allo stesso modo se si guarda al conseguimento del titolo di studio universitario, tra chi ha almeno un genitore laureato il 64% ha la laurea, mentre per i figli dei diplomati questa percentuale scende al 32%; per chi proviene da una famiglia con bassa istruzione (al massimo la licenza media) si ferma al 9%: la metà rispetto al 18% che si registra in Europa nelle stesse condizioni.
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