L’aspettativa retribuita in caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca, prevista dall’art. 2 della legge 13/8/1984 n. 476, come modificato dall’art. 52, comma 57, della legge 22/12/2001 n. 448, è stata riservata dal legislatore al rapporto a tempo indeterminato, come si desume dal riferimento alla prosecuzione del rapporto, per un periodo minimo di durata, dopo il conseguimento del dottorato. La limitazione agli assunti a tempo indeterminato non contrasta con il principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE nel caso in cui non vi sia compatibilità fra la condizione risolutiva prevista dallo stesso art. 2, giustificata da una legittima finalità, e la durata del contratto a termine, tale da non consentire, dopo il conseguimento del dottorato, la prosecuzione almeno biennale del rapporto.
Questo è il principio di diritto contenuto nella sentenza n. 3096/2018, con la quale la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del MIUR contro la sentenza della Corte d’Appello che aveva riconosciuto il diritto di un insegnante, assunto a tempo determinato per una supplenza annuale, a fruire – durante il congedo straordinario per un dottorato di ricerca ex art. 2 L.476/ 1984 – della conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza, sulla base del principio di non discriminazione tra lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato e quelli con contratto a tempo determinato.
La Cassazione ha invece ribaltato la decisione, precisando che la legge 448/2001, nella parte in cui prevede il diritto anche alla conservazione del trattamento economico, non è compatibile con il rapporto a tempo determinato, posto che nel caso di specie quest’ultimo sarebbe scaduto a giugno 2008, ben prima del conseguimento del dottorato di durata triennale.
In merito al divieto di trattamenti discriminatori, la Corte ha evidenziato che lo stesso non opera qualora sussista una obiettiva incompatibilità dell’istituto, del quale si invoca l’estensione, con la natura a termine del rapporto, “non eliminabile con frazionamenti temporali del trattamento mediante il criterio del pro rata temporis” e da valutare “in concreto in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda la legittima apposizione del termine di durata del contratto”.
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