Li ho conservati tutti i 65 “pizzini” che nel corso dell’anno scolastico 1997/98 ricevetti dalla vicepresidenza del “Principe Umberto” di Catania con l’ordine di supplire i colleghi assenti.
Li ho conservati a futura memoria nella vecchia carpetta della scuola, dove è pure racchiusa tutta la mia carriera di docente, e per il mio solo “piacere”, o dispiacere, di discuterne con qualcuno quando avrei lasciato la scuola per la pensione oppure per scriverci qualcosa, benchè ancora noi abbia individuato che cosa scrivere.
In ogni caso erano ancora là, nella carpetta dentro un cassetto della libreria, e ancora regolarmente piegati in una sorta di malloppo, e all’interno del quale ne ho preso uno a caso, dove si legge sia la classe dove sarei dovuto andare, sia l’ora e sia il nome del collega assente.
I pizzini di cui sto parlando sono appunto gli ordini di servizio con cui mi si imponeva di supplire all’assenza dell’insegnante e che hanno per oggetto: sostituzione nell’attività didattica di collega assente, segue uno schema orario con i giorni della settimana, la data e le ore.
Incomprensibile la firma di chi faceva le veci della preside, che dalla stanzetta al primo piano spediva tali fastidiosissimi dispacci che poi il bidello, mi recapitava ridendo e scherzandoci sopra. Infatti con tono tra lo sfottò e l’affetto, mi diceva, con un sorriso largo che i baffi enormi mettevano più in mostra: “Caro professore qualcuno la pensa! Anche troppo.”
La cosa singolare di questi foglietti-comunicazioni, con l’arcigno obbligo di sostituire l’assenza di qualcuno, sta nel fatto che i nomi degli impossibilitati a venire in classe per quel giorno per lo più erano sempre gli stessi, mentre i motivi di tale pedantesca imposizione rientravano nella idea che l’istruzione e quindi la scuola e quindi il liceo erano istituzioni serie, da rispettare con tutte le dovute considerazioni.
Qualche volta tuttavia protestai, anche perché quelle due ore a disposizione che avevo mi venivano regolarmente riempite e con pignoleria certosina, forse perché ero l’unico insegnante di tedesco e forse perché, essendo il primo nell’elenco alfabetico dei professori, veniva semplice acchiapparmi. Riprendendoli fra le mani tuttavia si è pure aperto un varco enorme di ricordi e una schiera importante di volti di colleghi con cui ho trascorso alcuni anni piacevolissimi e di intensa attività didattica e culturale.
E infatti in quegli anni il collega Martello organizzò, per la Fnism, straordinari corsi di aggiornamento tenuti dagli stessi colleghi e tra i quali c’ero anch’io. Fu un’occasione per studiare e riprendere vecchie ricerche che avevo fatto nel corso degli anni, fino a un intervento sul cinema muto e quindi sulla sua storia, partendo proprio dalle origini.
Era una sorta di fucina di idee allora il liceo Principe Umberto di Catania e ogni giorno durante l’intervallo, che per lo più trascorrevamo accanto alla buvette della scuola, se ne inventava una per non restare indietro, per promuovere la scuola, per dare risposte agli alunni soprattutto, ma anche agli altri colleghi che sentivamo coinvolti.
Erano gli anni quelli, per quanto mi riguarda, in cui pensavo di non uscirmene mai volontariamente dall’insegnamento, visto che mi gratificava il lavoro, mi appassionavano gli alunni, mi intrigavano i colleghi dei quali apprezzavo, fuori di retorica melensa, la preparazione e l’intelligenza, il senso del dovere e l’amore, se così si può chiamare, per la scuola.
Ogni occasione era buona per interessare gli alunni, per coinvolgerli, per stimolarne la curiosità, per farli lavorare senza gravare sul senso dell’obbligo.
Ed ogni giorno per me entrare in classe era una sorta di piacere, di nascosta, ma talvolta pure evidente, gioia di confrontarmi coi miei alunni a cui volevo bene, e non di quell’affetto melenso, caro al novecento deamicisiano, ma di rigoroso attaccamento nei confronti di chi fra qualche anno sarebbe diventato donna o uomo degno di ogni rispetto; di sincera simpatia per chi domani sarebbe divenuto professionista, ma anche altro, in una società futura che ho sempre pensato doveva essere migliore dell’attuale.
E così per la maggior parte del tempo spiegavo e raccontavo, illustravo e invitavo alla discussione su storie e miti, poesie e temi della letteratura tedesca, personaggi e frammenti di arte, ed evitando per quanto mi fosse possibile di interrogare per paura che quel clima si perdesse, che quell’atmosfera di socratico dialogo svanisse come la nebbia che lasciavo a San Giovanni La Punta per raggiungere Catania.
E poi uscendo dalla classe, soddisfatto di quell’ora e compiaciuto del mio lavoro, svolto con tutta la capacità che sentivo di possedere, mi accendevo la sigaretta per assaporarne l’atteso languore, ma già alla prima boccata, e senza avere avuto neanche il tempo di assaporarne la fragranza, arrivava il signor Perrone col “pezzino” maledetto in mano, mentre qualcuno, dalla vicepresidenza, mi invitava, magari prendendomi a braccetto, a raggiungere al più presto quella tale classe dove, mancando l’insegnate, si rumoreggiava allegramente.
“Che fare?”, avrebbe detto Lenin? “Obbedisco!”, avrebbe risposto Garibaldi.
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