In Inghilterra è imperante la logica di spronare i meno abbienti a intraprendere l’apprendistato e i più ricchi a iscriversi all’università, una logica che in realtà funziona per oliare il sistema: fa abbassare il debito, migliora i tassi di occupazione, riduce il bisogno di immigrati e quindi porta consenso alla politica.
Tuttavia, si legge sul Sole 24 Ore, non è una scelta lungimirante in termini economici. E soprattutto non è uguaglianza, anche se nel Regno Unito vige il sistema del debito studentesco: anche se non puoi permetterti di sostenere gli ingenti costi delle migliori università, il governo ti anticipa il denaro, con il patto di restituire tutto entro una certa scadenza.
In Italia, scrive Il Sole 24 Ore, l’università pubblica costa di meno, anche se ci avviciniamo al modello classista inglese se pensiamo alle rette di certe università private o dei master post lauream.
Anche restando nel pubblico dati Almalaurea mostrano chiaramente che tendenzialmente chi parte svantaggiato in termini economici, ci resta. Abbiamo bassissimi tassi di giovani laureati rispetto al resto d’Europa, soprattutto fra le fasce meno abbienti, anche perché nel nostro paese si aggiunge il gap della scelta della scuola superiore. Nell’anno scolastico in corso il 55% dei ragazzi frequenta il primo anno di un liceo, il 30% un istituto tecnico e il 15% un istituto professionale.
Come mostrano sempre i rapporti annuali di Almalaurea e Almadiploma, già questa prima scelta produce un divario di classe importante: solo un iscritto a un liceo classico o scientifico su 10 è figlio di operai o impiegati, il 17% dei diplomati professionali sceglie di andare all’università, e solo uno su tre di coloro che prima del diploma intendeva iscriversi all’università, l’ha effettivamente fatto. Chi proviene da famiglie più svantaggiate, non solo in termini economici, ma anche di titolo di studio dei genitori, di fatto studia di meno e quando anche arriva a iscriversi all’università, sceglie corsi di laurea più brevi.
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