Il leit-motiv che ricorre ormai in quasi ogni comunicato sindacale sulla questione del rinnovo del contratto scuola riguarda il rispetto dell’accordo Governo-sindacati del 30 novembre 2016.
I sindacati, infatti, continuano a chiedere che il Governo mantenga fede agli impegni assunti più di un anno fa, sia per quanto attiene gli aspetti normativi sia per la questione economica.
Nel concreto i sindacati sostengono che l’accordo garantiva 85 euro di aumento per tutti e che con il contratto si sarebbero potuti superare i vincoli previsti dal decreto Brunetta del 2009.
Ma cosa stabiliva, effettivamente, quell’accordo?
Occupiamoci per intanto della questione economica.
Queste le parole esatte dell’accordo: “Il Governo garantisce che saranno stanziate ulteriori risorse finanziarie che consentano di definire incrementi contrattuali in linea a quelli riconosciuti mediamente ai lavoratori privati e comunque non inferiori a 85 euro mensili lordi”.
Subito dopo si aggiunge: “Le parti si impegnano, nella sede dei tavoli di contrattazione, a garantire che gli aumenti contrattuali, nel comune intento di ridurre la forbice retributiva, valorizzino prioritariamente i livelli retributivi che più hanno sofferto della crisi economica”.
Il testo appare abbastanza chiaro: si parla di un aumento di 85 euro da intendersi non come “aumento minimo” da attribuire a ogni dipendente ma come quota media da riconoscere all’intero comparto pubblico; d’altronde basta andarsi a leggere la relazione illustrativa della legge di bilancio per comprendere meglio la questione.
Nella relazione, infatti, si chiarisce che le risorse stanziate (300 milioni per il 2016, 900 per il 2017 e 2.850 per il 2018 consentono aumenti medi pari allo 0,36%, all’ 1,09% e al 3,48% per ciascuno dei tre anni).
L’accordo del novembre 2016 prevedeva anche che con i contratti nazionali si sarebbe dovuta ridurre la forbice retributiva esistente fra gli stipendi più bassi e quelli più elevati.
In pratica, secondo quell’accordo, le risorse complessivamente disponibili dovrebbero servire non già a garantire 85 euro a ciascun dipendente ma attribuire aumenti più significativi ai dipendenti con stipendi più bassi.
In realtà già al momento della stipula del contratto degli statali la scelta dell’Aran e dei sindacati è stata del tutto diversa: a ciascun dipendente è stato riconosciuto un aumento a regime pari al 3,48%, con l’ovvio risultato che la forbice non solo non si è ridotta ma si è pure allargata.
D’altronde ridurre la forbice voleva dire riconoscere aumenti modestissimi agli stipendi più alti in modo da attribuire qualcosa di più di 85 euro ai livelli inferiori.
Anzi, la scelta di attribuire tutti lo stesso aumento percentuale ha determinato la necessità di reperire risorse per riconoscere gli 85 euro anche alle fasce più basse. La soluzione trovata la conosciamo già: per gli statali gli aumenti a regime decorreranno da marzo e non da gennaio.
Per la scuola un rinvio di due mesi potrebbe persino non essere sufficiente ed è molto probabile che, per “vedere” gli 85 euro lordi di aumento il personale debba aspettare fino ad aprile.
Il problema vero, insomma, non è che il Governo non ha rispettato gli accordi del 30 novembre, quanto piuttosto che quegli accordi già allora non prevedevano un aumento generalizzato di 85 euro pro-capite: o meglio gli accordi lo consentivano ma a condizione di non attribuire a nessun dipendente un incremento stipendiale superiore a quella cifra.
La scelta di Aran e sindacati è stata diversa: si è deciso di riconoscere a tutti il 3,48% in più e le conseguenze sono quelle che sappiamo.
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