Da qualche giorno c’è un silenzio assordante sulla scuola: marzo doveva essere il mese delle decisioni chiave, fondamentali per preparare al meglio il prossimo anno scolastico.
Invece, si è trasformato in nel mese dei rimandi a data da destinarsi. Così sta andando per il contratto, la cui trattativa per il rinnovo va a passo di tartaruga, lasciando immutati gli stipendi a otto anni addietro anche dopo l’accordo per tutto il pubblico impiego raggiunto con il ministro Marianna Madia.
Stesso copione per gli organici, che dovevano vedere spostati, a detta del Miur ma non del Mef, 25mila cattedre da fatto a diritto, con la possibilità di poterle poi utilizzare ai fini della mobilità e delle immissioni in ruolo. E anche le assunzioni rimangono in bilico, visto che dalla traduzione numerica dei posti che si andranno a formare con i 400 milioni di euro investiti dal Governo a fine 2016 per tale scopo, con la Legge di Bilancio, dipenderanno anche le immissioni da realizzare oltre il turn over, ovvero circa i 25mila prossimi pensionamenti.
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Medesimo destino per la mobilità del personale 2017/18, che dopo le buone premesse di fine 2016, con l’accordo lampo tra il dicastero di Viale Trastevere e i sindacati, si è impantanata, esattamente come l’anno scorso, per via della diatriba mai superata sulla chiamata diretta dei docenti imposta dalla Legge 107/15.
Rimanendo alla Buona Scuola, ci sono poi i decreti legislativi della riforma Renzi-Giannini: dopo i pareri, non vincolanti delle commissioni parlamentari, stiamo infatti vivendo dei giorni di attesa. E di incertezza. Perché, al di là delle rassicurazione del Pd, anche per la stabilizzazione dei precari da graduatoria d’Istituto, ora gli otto testi sono nelle mani del Governo, che dovrebbe apportare le ultime modifiche e dare il via libera definitivo entro il prossimo 17 aprile.
Nel frattempo, la scuola è come sospesa. Vive in una sorta di limbo. Dove supposizioni e ipotesi prevalgono su convinzioni e punti fermi. Intanto, siamo ad aprile: tra 153 giorni partirà il nuovo anno. Che per le necessità della scuola, dei suoi otto milioni di alunni e un milione di dipendenti, di cui ancora 150mila precari, sono maledettamente pochi.
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