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Contro i docenti italiani il J’accuse di Bankitalia

Altro che vocazione. I docenti italiani sarebbero così poco attaccati al loro lavoro e concentrati a trovare una sede migliore da provocare ripercussioni negative sugli studenti e sulla loro formazione: è un quadro severo, con tante zone d’ombre e poche di luce, quello realizzato da alcuni ricercatori dell’istituto della Banca d’Italia e del Ministero dell’istruzione, università e ricerca.
Le conclusioni dello studio hanno tutta l’aria di essere un J’accuse piuttosto che una fotografia imparziale. Il dito è puntato verso il sistema organizzativo, ma tra le righe anche contro gli stessi insegnanti. “Rei” di essere in prevalenza donne (come se fosse una colpa), anagraficamente più avanti negli anni rispetto agli occupati negli altri comparti (soprattutto al Sud) e con gli inizi di carriera caratterizzati da forte precarietà (“con contratti a termine di durata inferiore rispetto al resto dell’economia, una più intensa ricerca di un altro lavoro e una più elevata probabilità di svolgere un secondo lavoro“). 
I ricercatori di Bankitalia e del Ministero diventano ancora più severi quando scoprono che la categoria dei prof è particolarmente propensa a cercare una sede migliore di lavoro: il “malessere” di fondo con cui vivono la professione li farebbe rendere in genere poco attaccati alla scuola nella quale si trovano. 
La professione sarebbe scevra da adeguate “verifiche sui comportamenti e sulla qualità e basati su regole amministrative in cui l’anzianità accumulata garantisce prima l’assegnazione di un incarico temporaneo, poi l’accesso a un posto di ruolo e, infine, la mobilità verso la sede scolastica desiderata“. Lo studio sottolinea come più di un quinto dei docenti cambi scuola ogni anno e che in media un insegnante a tempo indeterminato su sei è in attesa di spostarsi dalla scuola in cui insegna: un turnover che produrrebbe il cosiddetto “mismatch“, ovvero lo scarso attaccamento alla scuola in cui operano” e “mancanza di continuità didattica” che danneggerebbe non poco gli studenti.
Nello studio, aggiungiamo noi, non si è evidentemente tenuto conto del fatto che per entrare in ruolo i docenti si spostano di Comune e spesso anche di Regione per poi, nel corso degli anni, tentare di avvicinarsi nella propria zona d’origine.
Sorprende non poco anche il dato che giudica il reclutamento dei docenti italiani un sistema così poco efficiente da produrre la cosiddetta “selezione avversa“: così dietro la cattedra si ritroverebbero in prevalenza i soggetti meno capaci. Questo perché gli insegnanti sarebbero paradossalmente in media meno istruiti e (soprattutto al Meridione) con voti di laurea o di diploma inferiori a quelli dei loro colleghi che operano nel resto del Paese. In particolare quelli assunti negli anni Settanta e Ottanta: tanto che il loro voto di laurea o di diploma è mediamente più basso rispetto agli iper-specializzati dell’ultimo decennio.
Le “colpe” di docenti italiani sarebbero poi anche altre: fare l’insegnante rappresenta svolgere un lavoro “nettamente” distinto dalle altre professioni “per le dimensioni contenute dell’orario medio settimanale di lavoro e la maggiore diffusione di assenze temporanee dal lavoro“. Al punto che molti docenti di ruolo avrebbero spesso modo e tempo per svolgere un’altra occupazione. 

Alessandro Giuliani

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