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Convegno Europeo sugli handicappati intellettivi

Una lettura attenta in chiave europea dei problemi del settore consente di rintracciare nel Trattato di Amsterdam del 1997 il primo atto giuridico rilevante della Unione. Fino ad allora la difesa del soggetto in situazione di handicap era stata affidata ad atti giuridici come le Raccomandazioni che, come si sa, non hanno un potere vincolante. Con il Trattato di Amsterdam e con il Forum Europeo dello stesso anno è avvenuto un salto di qualità nella legislazione e nella cultura comunitaria. Ciò non significa che la Unione sia in grado di colmare dall’alto i ritardi presenti nei singoli Stati membri in quanto vige nella normativa dell’UE il principio della sussidiarietà per cui l’intervento comunitario si colloca ad integrazione di quello nazionale. Sull’uso delle risorse finanziarie la Comunità ha potere cogente ed ha di recente operato scelte apprezzabili di correzione degli interventi a pioggia finalizzando gli interventi verso target ritenuti prioritari.
Se è vero, come è stato sostenuto, riprendendo una immagine di Andrea Canevaro, fra l’altro presente al Convegno come relatore, che “l’handicap non si porta, ma si incontra”, è anche vero che gli ostacoli più difficili da rimuove non sono quelli fisici come le strutture architettoniche, ma quelli derivanti da un modello di organizzazione scolastico, lavorativo e sociale pensato e voluto per una società che pretende la produttività individuale spesso a scapito di quella sociale. Non solo. Il convegno ha riflettuto a lungo sugli ostacoli che la cultura occidentale ha frapposto nel corso dei secoli, costruendo atteggiamenti sociali fondati su immagini del disabile che sono ancora molto radicate. Si va dall’immagine del mondo classico che parlava del Monstrum come segno di “errore della natura” per cui bisognava che fosse fisicamente eliminato, a quella del mondo religioso medioevale che vedeva nel disabile il segno di una punizione divina, magari per averlo concepito in un giorno festivo in cui erano vietati i rapporti sessuali; dall’immagine del “buon selvaggio” della pedagogia illuministica all’immagine positivistica del “malato pericoloso” a sé e agli altri che, pertanto, bisognava rinchiudere ed isolare in strutture carcerarie o manicomiali, per arrivare all’immagine costruita negli ultimi 50 anni del disabile come “bambino da proteggere” che non diventerà mai adulto e autonomo. E’ un’immagine quest’ultima di infantilizzazione che coesiste con altre ancora largamente presenti e che è difficile correggere o estirpare. Un figlio normodotato si può difendere dal tentativo affettuoso dei genitori di considerarlo sempre un bambino, un disabile ha più difficoltà perché è uno a cui si dà del tu fino a 40 anni, di cui si preferisce avere una visione angelica, asessuata, infantile e quindi lo si considera non in grado di assumersi le responsabilità che gli competono per il ruolo, l’età, la funzione esercitata. Il Convegno non ha mancato di evidenziare le conquiste, specie in Italia, sul versante scolastico, sociale e financo lavorativo, ma noi in questa sede abbiamo voluto utilizzare lo spazio disponibile per segnalare “le cose ancora da fare”.

Calogero Virzì

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