Con la sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018 la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di un lavoratore, ha stabilito la reintegra del lavoratore licenziato per aver registrato in azienda dialoghi con colleghi ignari, dopo l’irrogazione di una contestazione disciplinare.
Il dipendente risulta infatti leso nel suo diritto di difesa: non c’è violazione della privacy quando il trattamento dei dati viene effettuato per precostituirsi prove nell’ambito di un procedimento disciplinare.
In primo grado il licenziamento era stato riconosciuto legittimo in quanto il lavoratore era stato ritenuto responsabile di una grave violazione della privacy, in sede di Appello il licenziamento era stato ritenuto sproporzionato, ma il dipendente non era stato reintegrato, ottenendo una indennità risarcitoria pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto sulla base della previsione contenuta al comma 5 dell’art. 18.
La Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento in quanto le registrazioni effettuate andavano correlate ad un clima conflittuale presente in azienda e, in special modo, verso i superiori.
Alle registrazioni è stato riconosciuto un valore finalizzato alla precostituzione di prove da far valere, a tutela dei propri diritti, in un eventuale procedimento ulteriore, venendo, così, meno il rilievo di natura disciplinare.
Fatti di causa
1.1. Con sentenza n. 1298/2015 pubblicata iI 26/11/2015, la Corte di appello di L’Aquila, decidendo sul reclamo proposto da A. C., avverso la decisione del Tribunale di Vasto n. 102 del 25/5/2015 (che, nella fase di opposizione ex art. 1, co. 51 e ss., della legge n. 92/2012, aveva confermato il rigetto del ricorso ex art. 1, co. 48 e ss., legge n. 92/2012 proposto dal C. nei confronti della A. H. I. D. S.p.A., inteso ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento allo stesso intimato in data 29/3/2013 e la reintegra nel posto di lavoro), in riforma della pronuncia del Tribunale, riteneva l’illegittimità del provvedimento espulsivo per sproporzione rispetto ai fatti contestati e per l’effetto condannava la società a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
1.2. Ad avviso della Corte territoriale, gli elementi forniti dall’appellante a dimostrazione dell’inesistenza del motivo addotto a giustificazione del licenziamento non erano sufficienti per considerare il carattere ritorsivo ovvero discriminatorio del provvedimento espulsivo.
1.3. Per il resto, quanto ai fatti oggetto della contestazione disciplinare che avevano condotto al licenziamento del C. (consistiti nell’aver il dipendente, in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della società, consegnato una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi e nell’aver il medesimo provveduto ad ulteriori registrazioni anche video come riportato in sede di segnalazione da parte di colleghi di lavoro che avevano riferito di aver visto il C. continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, il tutto in violazione della legge sulla privacy e con la recidiva rispetto ad altre precedenti contestazioni), la Corte di merito, dopo aver ricostruito il contesto in cui andava inquadrata la condotta che aveva portato alle contestazioni, così argomentava: – il C. aveva adottato tutte le cautele al fine di evitare la diffusione dei dati raccolti e, contrariamente a quanto riportato nella lettera di contestazione circa le segnalazioni di suoi colleghi di lavoro, le persone registrate non avevano saputo nulla di tali registrazioni prima di esserne informati dal direttore delle risorse umane cui erano stati trasmessi i files delle registrazioni consegnati dal dipendente su pennetta usb ad un delegato dell’azienda in occasione di un incontro relativo a precedente contestazione disciplinare; – il C. non aveva in alcun modo utilizzato o reso pubblico il contenuto di quelle registrazioni per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto; – era da escludersi la configurabilità nella vicenda di ogni rilevanza penale e sussisteva l’ipotesi derogatoria, rispetto alla necessità di acquisire il consenso dei soggetti privati interessati dalle registrazioni, in ragione nelle finalità del lavoratore di documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e di salvaguardare la propria posizione di fronte a contestazioni dell’azienda ‘non proprio cristalline.
1.4. La condotta del dipendente, pertanto, pur potendo essere motivo di sanzione disciplinare – in relazione al clima di tensione e di sospetti venutosi a creare tra gli ‘ignari’ colleghi dopo la ‘rivelazione’ delle registrazioni – tuttavia non era tale da integrare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
La ritenuta sproporzione del licenziamento intimato aveva quale conseguenza l’applicazione dell’art. 18, co. 5, della legge n. 300/1970 come novellato dalla legge n. 92/2012.
2. Per la Cassazione della sentenza ricorre A. C. con due motivi.
3. Resiste con controricorso Alliance Healthcare Italia Distribuzione S.p.A. e propone altresì ricorso incidentale affidato a due motivi cui il C. resiste con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e/o erronea applicazione dell’art. 18, co. 5, della legge n. 300/1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) in relazione al fatto materiale del licenziamento. Lamenta che, pur avendo la Corte territoriale escluso che i comportamenti del C. integrassero una violazione della legge sulla privacy e pur avendo smentito la circostanza di cui alla contestazione disciplinare secondo la quale vi erano state segnalazioni di colleghi di lavoro del predetto che avrebbero riferito di averlo visto continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, tuttavia, senza trarre le dovute conseguenze con riguardo all’insussistenza del fatto materiale a base del licenziamento, ha applicato la mera tutela risarcitoria ipotizzando una sproporzione del provvedimento espulsivo rispetto ad una mera ipotesi di rilevanza comunque disciplinare del fatto addebitato.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e/o erronea applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Si duole della disposta compensazione delle spese a fronte dell’accoglimento della domanda del lavoratore intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento ed in assenza di soccombenza reciproca.
2.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ. per omesso esame dell’astratta idoneità del comportamento del lavoratore a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Lamenta che la Corte territoriale abbia escluso che nella vicenda potesse configurarsi la giusta causa di licenziamento sulla base della ritenuta insussistenza della gravissima violazione della legge sulla privacy indicata dall’azienda nella contestazione di addebito e comunque per non aver considerato, quale circostanza di per sé sufficiente ad integrare tale lesione, che il C. si fosse permesso di effettuare registrazioni e videoriprese all’interno dello stabilimento di Vasto, interessanti addetti allo stabilimento medesimo ed all’insaputa degli stessi. Rileva che la Corte territoriale non avrebbe indicato sulla base di quali elementi fosse pervenuta alla conclusione che all’interno dello stabilimento vi era una situazione di conflitto coinvolgente il C. e suoi colleghi di grado più elevato.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 13, 23 e 24 del d.lgs. n. 196/2003 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) per non avere la Corte territoriale ritenuto le registrazioni legittime solo con il consenso degli interessati. Sostiene che nella specie non fosse applicabile l’esimente considerata dai giudici di appello in quanto non vi era da far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
3.1. Ragioni di ordine logico impongono l’esame prioritario del ricorso incidentale.
I motivi di tale ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
3.2. Va innanzitutto chiarito che, sulla base della normativa a tutela della privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, oggetto di successivi aggiornamenti), per ‘trattamento’ dei dati personali si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati – art. 4 lett. a) – e che per “dato personale” si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale – art. 4 lett. b) – e così, dunque, qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute etc. della persona fisica ma anche e soprattutto le immagini e la voce della persona fisica.
Ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 196/2003, il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato.
L’art. 167, co. 1, sotto la rubrica “trattamento illecito di dati”, apre il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III (rubricato “sanzioni”) del d.lgs. n. 196/2003. La norma prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate: l’una relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi e l’altra consistente nella comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi. Entrambe le condotte presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui, realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli altri, dall’art. 23 del medesimo d.lgs.
Ai sensi dell’art. 4, co. 1, lett. m), la condotta di ‘diffusione’ consiste, poi, nel “dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione”.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell’interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come statuisce l’art. 24, co. 1, lettera f), è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Si tratta, come è di tutta evidenza, della previsione di una deroga che rende l’attività, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per sé già a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia finalizzato all’esercizio delle prerogative di difesa, è evidentemente anche insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall’art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca “deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito” (Cass., Sez. U., 8 febbraio 2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22 aprile 2010, n. 9526 ed a Cass. 14 novembre 2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/11; Cass. pen. n. 16986/09; Cass. pen. n. 14829/09; Cass. pen. n. 12189/05; Cass. pen., Sez. U., n.36747/03).
E’ stato, altresì, chiarito che l’iporesi derogatoria di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal consenso dell’interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11 luglio 2013, n. 17204 e Cass. 1° agosto 2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell’utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio (v. la già citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. n. 27424/2014). Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex art. 391 bis cod. proc. pen. e ss., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell’eventuale instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391 nonies cod. proc. pen.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che – ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile – ha il diritto, nei termini di cui all’art. 408 cod. proc. pen. e ss. – di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell’udienza camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui ad opera del C., vale a dire di una delle persone presenti e partecipi ad essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all’insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all’ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Così ha evidenziato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente “per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline” e per ‘precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui”. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il C. ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari (cfr. pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di pag. 10) in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili ‘sacche di omertà” come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo capoverso).
Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell’indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia, in ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un rapporto di lavoro e di quelli connessi all’ambiente in cui esso si svolge, sulla base dell’esistenza della scriminante generale dell’art. 51 cod. pen., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com’è noto, da sempre concordi – cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014 -).
Altro sarebbe stato – sia ben chiaro – se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il senso della contestazione disciplinare per cui è causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la ‘gravissima’ ed ‘intollerabile’ violazione della legge sulla privacy ‘comportante l’ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi”.
Né, invero, risulta provato che il C., come si legge sempre nella contestazione disciplinare, a metà dicembre 2012, avesse scattato foto nella zona dell’ingresso merci al solo scolo di prendere in giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del C. non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del dipendente di adempiere in modo puntuale l’obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta (perché qui iure suo utitur neminem laedit) o – peggio – azioni delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di ritenere fondato il primo motivo del ricorso principale (con assorbimento del secondo).
4.2. La condotta del C., in sé lecita, non poteva rilevare in sede disciplinare.
Del tutto evidente è che il clima di tensione e sospetti venutosi a creare tra gli “ignari colleghi” dopo da ‘rivelazione’ delle registrazioni e cioè una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma non costituente inadempimento, al più poteva assumere rilevanza, in una prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva incompatibilità del dipendente con l’ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell’attività, e dunque, ove ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11 agosto 1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione “insussistenza del fatto contestato” di cui dell’art. 18, co. 5, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto – come giustamente osservato da certa dottrina – non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma. Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti giuridici senza riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade nell’irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l’approccio ermeneutico sotto una visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 10 gennaio 2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, ex art. 5 legge n. 604/66 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall’attore).
In altre parole, per sua stessa natura l’eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d’arrivo è suggerito in un’ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 St. lav., nonché di compatibilità costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l’illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all’art. 18, co. 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.
L’esito sarebbe quello di una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., oltre che di una intrinseca e inspiegabile aporia all’interno della medesima disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio già affermato da questa Corte secondo cui: “L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 St. lav., come modificato dall’art. 1, co. 42, della I. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (cfr. Cass. 13 ottobre, 2015, n. 20540; Cass. 20 settembre 2016, n. 18418 e le più recenti Cass. 26 maggio 2017, n. 13383 e Cass. 31 maggio 2017, n. 13799).
5. Conclusivamente, va accolto il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo e va rigettato il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Roma che farà applicazione del principio sopra indicato e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
6. Va dato atto, quanto alla posizione della ricorrente incidentale, dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo e rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.
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