Da sempre ci sono governi fortunati e altri meno fortunati. Non a caso Machiavelli riteneva che la “fortuna” rivestisse un ruolo di primo piano nell’azione del principe. Capita (il destino, il fato) che vi siano ministri chiamati a gestire l’ordinaria amministrazione ma capita pure che altri vengano chiamati a dover affrontare situazione emergenziali.
È quello che, in questo momento capita ai ministri come Azzolina e Speranza.
Chiudiamo le scuole o meglio sospendiamo le attività didattiche fino a metà marzo e va bene. Certamente nessuno sa per certo quanto durerà l’emergenza e se, qualora dovesse prolungarsi, la stessa non vada seriamente a compromettere la validità di questo anno scolastico.
Non parlo delle assenze: ci sarà ovviamente la sanatoria finale e valgono le parole rassicuranti del ministro Azzolina circa la validità dell’anno scolastico in deroga ai famigerati 200 giorni di lezione.
Non voglio parlare nemmeno di contenuti, di programmi, di competenze. Non basta improvvisare la didattica a distanza, non è nella nostra cultura né nel nostro bagaglio tecnologico ed in ogni caso, mantenendo inalterato l’assetto dei prossimi esami di stato, non ce la faremmo mai a rientrare nella normalità per ragazzi di quinta classe attualmente spaventati e confusi.
L’ipotesi di uno scenario apocalittico di chiusura ad oltranza almeno a tutto aprile è cosa che traspare dalle parole di molti esponenti del mondo politico. Da ultimo lo fa l’ex senatrice PD Laura Fasiolo: “La sospensione delle attività didattiche si protrae e ancora si protrarrà, a mio parere più di quanto si possa oggi immaginare, con inevitabili ripercussioni sulla formazione e la crescita culturale degli studenti.”
Quindi urge, a questo punto, una risposta alla domanda: che fare?
Qualche giorno fa, La Tecnica della Scuola promuoveva un sondaggio tra due scenari possibili:
La scelta della prima ipotesi potrebbe rivelarsi “popolare (o forse populistica)” nell’idea di accontentare tutti (genitori in testa) per chiudere in bellezza. Ma sarebbe una scelta assolutamente impopolare e frustrante per quelle migliaia e migliaia di docenti che ogni giorno faticano sulle cattedre e per quei pochi studenti meritevoli (pochi ma buoni) che ancora credono nel valore dell’istruzione.
La seconda scelta, quella di prolungare le lezioni fino al 30 giugno sarebbe “impopolare” e antieconomica. Sarebbe impopolare per famiglie e tour operator pronti a strillare per viaggi programmati e annullati e per vacanze posticipate e poi perché, con onestà, bisognerebbe riconoscere che, soprattutto in certe realtà come quelle più meridionali, a 35 gradi, i nostri ragazzi non ce la farebbero.
Sarebbe antieconomico non solo per i danni all’economia delle vacanze e del turismo (sistema alberghiero, trasporti, agenzie di viaggio ecc.) ma soprattutto per il sistema scolastico italiano così com’è congegnato.
infatti, che fine farebbero tutti i nostri contratti t.d. cioè a tutti quei contratti di lavoro a tempo determinato sia per i docenti precari supplenti incaricati (e sono tanti) sia per i lavoratori ATA? Con scrutini a luglio bisognerebbe prolungarli di almeno 7-8-10 giorni ma ciò creerebbe un cosiddetto danno all’erario; il MEF avrebbe di sicuro qualcosa da ridire e forse addirittura bisognerebbe rivedere lo stesso DEF in merito a previsioni e debito pubblico.
Che fare allora? La risposta, come spesso accade, è possibile trovarla nel passato. Si proprio in quella Storia (sempre maestra di vita) tanto vituperata nel nostro mondo scolastico.
“… il mio esame di maturità è avvenuto in questo modo, sotto le bombe …”
E non è solo un modo di dire. Nel 1943 gli esami di maturità vennero aboliti.
“Non abbiamo fatto gli esami di maturità perché gli inglesi ormai erano a Lampedusa. Allora arrivò l’ordine dal provveditorato – o come si chiamava allora – che gli studenti di terza liceo fossero promossi o bocciati a scrutinio, d’ufficio. Ottenni la promozione. Fine del discorso. In altre parole non ho sostenuto gli esami di maturità.”
[Dal libro intervista ad Andrea Camilleri “La linea della palma” a cura di Saverio Lodato, Rizzoli, 2012]
“Fu una bella estate, per me, quella del 1943 … Vennero aboliti gli esami di maturità, e sostituiti dagli scrutini. Avevo diciassette anni e mi sembrava di essere molto felice.”
[Miriam Mafai, Una vita, quasi due, Rizzoli, 2012]
Era il luglio dell’anno 1943. Ministro dell’istruzione, o meglio dell’Educazione Nazionale, era Carlo Alberto Biggini succeduto a Giuseppe Bottai che aveva lasciato il ministero a febbraio. La guerra era perduta. Il 9 maggio Palermo era stata pesantemente bombardata e il 9 luglio l’Operazione Husky si abbatteva sulle coste siciliane di Gela, di Pachino, di Avola. In quell’emergenza bellica nazionale gli esami di maturità della sessione 1943 semplicemente non sono stati effettuati. La stessa cosa era accaduta anche nel 1940 e nel 1942.
Non mi pare che la storia futura della nazione ne abbia sofferto. I diciottenni non maturi del ’43 sono gli stessi ventenni del ’45 che hanno fatto la Resistenza al nazifascismo.
Non mi pare che ne abbia risentito la cultura di questo paese se quegli esami non fatti ci hanno regalato una grande giornalista come Miriam Mafai ed uno scrittore immenso come Andrea Camilleri.
Oggi ben lo sappiamo: gli esami di stato sono soltanto uno sterile atto amministrativo che nulla aggiunge alla qualità di uno studente. Lo sanno bene i professori, lo sanno bene gli studenti. Solo le famiglie rimangono ancorate, per tradizione, a questo rituale stantìo. Ogni anno sforniamo e immettiamo nella formazione universitaria e nel mercato del lavoro circa mezzo milione di italiani sulle soglie del semianalfabetismo; l’esame è una burletta per non parlare della grottesca pantomima delle tre bustine di Bussetti.
Che fare allora?
Facciamoci guidare dalla storia. Facciamo come nel ’43.
Un decreto, un semplice decreto dove però si afferma con estrema chiarezza, sostanzialmente, quanto segue:
Consideriamo ora i benefici di un tale decreto:
È fatta salva la validità dell’anno scolastico;
Famiglie, studenti e professori non hanno sofferto più di tanto dell’azione intrapresa dal Ministero;
Abbiamo salvaguardato l’economia del turismo e delle vacanze;
Abbiamo evitato un “buco” nel bilancio dello stato;
Abbiamo salvaguardato la validità del titolo di studio;
Il risparmio ottenuto dalla soppressione degli esami di stato, 150 milioni di euro all’incirca, potrebbero essere dirottati, con vincolo, a spese sanitarie per l’emergenza attuale o per “sanificare” realmente tutte le scuole.
Lasciamoci guidare dalla storia. Facciamo come nel ’43.
Salvo Bascone
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