Discriminazione.
È l’unica parola che viene in mente di fronte al nuovo processo per l’abilitazione.
Con ordine: il Governo precedente a questo, con l’accoppiata Draghi-Bianchi, ha deciso che i docenti che aspirino ad una supplenza annuale e/o supplenze continuative, sistema in uso da decenni nella scuola, devono avere il titolo di abilitazione. Tale abilitazione, solo nel 2020, si sarebbe potuta ottenere con un concorso al costo di 15 euro, concorso che era stato bandito ma, causa covid, non è stato organizzato. Con l’ex ministro Patrizio Bianchi il percorso verso l’abilitazione è stato rivoluzionato: non più un concorso, forse troppo banale, ma una serie di corsi appositi organizzati dalle Università alla modica cifra di 2500 euro che permettono di acquisire 60 crediti formativi universitari, i cosiddetti CFU.
Non capendo il motivo di tale riforma, il meccanismo avviato ha creato una discriminazione enorme tra docenti per i corsi destinati a coloro che hanno già un titolo di abilitazione in una qualsiasi materia o nel sostegno e chi ha almeno tre anni di servizio. Per entrambe le categorie, infatti, sono previsti 30 CFU a 2000 euro ma i primi, già titolati, possono ottenere una seconda abilitazione con un corso tutto online, senza numero chiuso e senza nessun esame. Pagano si collegano, cliccano qua e là ed è fatta; i precari storici, invece, vittime di una vera violenza e considerati figli di un dio minore, hanno corsi a numero chiuso, dunque non accedono tutti, corsi sia online che in presenza, con tutti i disagi conseguenti e (attenzione che arriva la vera assurdità): un tirocinio finale!!!
Già non si capisce il motivo per cui i corsi da 60 CFU costino 2500 euro mentre quelli da 30 CFU 2000, cifra magicamente divenuta, secondo un ministero che dovrebbe ripassare l’aritmetica, la metà dell’altra, già non si capisce a cosa servano questi corsi basati su pedagogia, psicologia, didattica, che i docenti conoscono già, ma qual è il motivo di tanta disparità fra docenti già abilitati e precari? I primi stanno comodamente seduti al pc, gli altri hanno una serie di difficoltà (numero chiuso, presenza, tirocinio). I precari hanno anni e anni di servizio alle spalle e, quindi, grande esperienza, dunque cosa dovrebbero imparare ancora? A che serve il tirocinio? Chi scrive di anni in servizio ne ha otto, cosa mi devono insegnare che non abbia già imparato da solo? Un discriminazione del genere è di una violenza inaudita, qualcosa che mi riporta a periodi bui della storia mondiale in cui intere categorie di persone erano escluse da tutto, una sorta di apartheid che discrimina docenti uguali a quelli di ruolo, che fanno le stesse attività, lo stesso lavoro, le stesse azioni, che seguono classi per un intero anno, fanno colloqui con i genitori, fanno verifiche e interrogazioni, promuovono e bocciano.
I Governi hanno deciso, però, che i precari sono una feccia maleodorante di cui liberarsi, reietti da schifare. E la loro grande esperienza non vale niente perché verranno scavalcati in cattedra da ragazzetti neolaureati che prenderanno i 60 CFU a 2500 euro: non avranno nemmeno un minuto di servizio ma passeranno avanti nelle graduatorie perché provvisti di abilitazione.
Forse nelle scuole troveremo alla porta del bagno un cartello con l’immagine di un precario e la scritta: «Io non posso entrare». Come per i cani.
Andrea Baiocco