Nelle ultime settimane, all’ordine del giorno dei Collegi dei docenti di quasi tutte le scuole italiane c’è la promozione della salute a scuola, per cui saranno stanziati dei fondi dal PNRR.
Siamo ad ottobre e non sento che docenti lamentarsi, perché non ce la fanno più.
La burocrazia è troppa, la pressione da presidi e genitori continua, la formazione e i progetti sono troppi ed inutili. Ti dicono che sono direttive ministeriali o che se sono stati votati al collegio. Vanno portati avanti, pure se in progress si rivelano fallimentari.
Fedeli alla linea – La linea non c’è.
Ma la linea è il caos stesso, che si autoalimenta, perché le forze antagoniste sono troppo deboli, per non essere fagocitate. Così, anche se sulla carta ci sarebbe il diritto di interrompere o modificare ciò che non si ritiene utile al benessere e all’evoluzione di alunni, docenti e comunità, nella realtà ci si adegua, perché se non si conoscono i propri diritti è impossibile rivendicarli.
Quasi tutti i docenti con cui parlo mi riportano che gli alunni non studiano e spesso categorie come PDP, DSA, BES, PPT sono vissute dai ragazzi e dai genitori come una sorta di barricata dietro cui trincerarsi, per evitare qualsiasi tipo di sforzo e di valutazione negativa, vista non come un feedback ed un input per il miglioramento, ma come uno stigma, che possa intaccare l’autostima e la fiducia dei ragazzi. Per non parlare della bocciatura, che non è minimamente più presa in considerazione.
È questo “andare incontro ai bisogni del singolo alunno”?
Quali bisogni? A che prezzo? Con quali risultati?
La farsa del docente pubblico ufficiale poi fa piangere, se si pensa a quanti colleghi siano costretti quotidianamente a subire vessazioni, minacce e provocazioni da parte di genitori ed alunni di qualsiasi età. Le sospensioni non hanno conseguenze e sempre di più si evitano o nei rari casi, si sospende con obbligo di frequenza, perché si deve garantire ai genitori di poter a andare al lavoro ed agli alunni di poter prendere consapevolezza dei propri errori, ponendosi al servizio della comunità scolastica, la stessa di cui se ne fregheranno l’ora successiva. Per far ciò si richiede ad alcuni docenti di mettersi a disposizione nelle loro ore libere, senza essere pagati, per poter seguire gli alunni nel loro percorso di espiazione.
Sia nel caso della bocciatura che nel caso della sospensione, lo spauracchio spiaccicato in faccia dai presidi è il ricorso da parte dei genitori. E alla parola “ricorso” il consiglio di classe o il collegio docenti, già sgangherato e claudicante, stramazza senza più fiatare.
Sopportando tutto, com’è già abituato a fare.
Da anni si chiede al docente, per 1.490 euro al mese, di essere educatore, insegnante, psicologo, madre, padre, amico, infermiere, guida turistica, attore, comico…
Perché devi farli un po’ divertire sti ragazzi o no!? Che sono queste facce lunghe!?
Certo che dietro ogni alunno c’è un mondo, ma non è possibile, forse nemmeno auspicabile entrare in quel mondo. La scuola non può sostituirsi alla famiglia, né la famiglia può sostituirsi allo Stato. Ma nella realtà si fa quel che si può.
E troppo spesso ciò significa sacrificare tempo ed energie per un’idea di scuola che è speculare alla società capitalistica in cui viviamo.
I docenti sono operai, a cui si chiedono sforzi continui perché l’azienda scuola deve andare avanti, bisogna che la merce sia accattivante, se no non si vende.
I genitori acquirenti possono cambiare scuola, così caleranno gli iscritti e diminuiranno le classi, perché il numero di alunni dovrà essere sempre di 25.
Neanche l’apocalisse Covid è riuscita a smuovere il mammut della scuola.
Il corpo della comunità, scosso dalla tragedia, ha sentito che sanità e istruzione erano il suo cuore e la sua mente, ma è durato poco, giusto il tempo che si sopravvivesse all’imprevisto. Così lo Stato, dopo il vaccino, ritorna a investire in armi molto meno nobili, semmai avesse smesso.
Ma i docenti non sono semplici operai della cultura, perché devono farsi pure pubblicitari per vendere il brand della loro scuola, per paura di finire, dopo anni di precariato, di nuovo lontani da casa, o peggio su più scuole per poter completare le ore della loro cattedra.
Bisogna essere smart. Adeguati ai tempi in cui l’attenzione dura solo pochi secondi. Essere social e sorridenti. La rabbia e la frustrazione per lo sfruttamento continuo non si devono mostrare. C’è spazio solo per l’estasi del martirio o al massimo per il lamento funebre delle prefiche, dietro le quinte.
Così si consumano le vite dei detentori della conoscenza.
In edifici vecchi di 50 anni, con riscaldamento e illuminazione non a norma, con aule troppo spesso anguste, ammuffite, dai soffitti cadenti o caduti. Senza spazi sani e funzionali per la tanto decantata inclusione. Senza tempo che non sia quello preposto alla bulimica somministrazione di nozione-formazione-lavoro.
Senza consapevolezza della causa dell’azione né della sua direzione.
Alla luce di quanto detto, cosa significa promuovere la salute a scuola?
Proporre una scuola libertaria in un pianeta capitalistico?
Rispettare i diritti di chi ci lavora e non ricattarli, rubandone il tempo e l’energia?
Permettere una reale autonomia al docente?
Lasciare che si formi come intellettuale e possa evolvere come essere umano, così da essere d’esempio per i suoi alunni?
Rendersi conto che a niente serve una formazione preconfezionata e trasmessa da chi non ha idea delle reali dinamiche di classe (e qui lo intenderei in tutti i sensi)?
Abbandonare un’idea consumistica di istruzione?
Nunzio Di Sarno