Attività e competenze che si svolgono e si acquisiscono con strumenti e metodologie che esclusivamente appartengono alla Scuola?
Prima come giovane studente, poi come genitore e come professionista occupandomi di studenti con difficoltà di apprendimento, non ho mai compreso veramente il significato della parola “scolastico”, nel modo in cui viene proposto quando abbiamo un colloquio con gli insegnanti.
L’esempio più eclatante e concreto che ora posso fare, poiché la situazione non è limitata a ciò, avviene con l’insegnamento delle lingue straniere.
Molto spesso accade che chi apprende in modo “scolastico” per esempio l’inglese, poi quando va all’estero non riesce comunicare con le persone del posto.
Infatti, sempre paradossalmente, capita spesso che chi è bilingue poi frequenta una scuola italiana, ottiene voti bassi proprio per la lingua straniera che conosce e pratica dalla nascita, perché non lo sa in modo “scolastico”!
Addirittura gli studenti che fanno percorsi in altri Paesi frequentando scuole locali, poi tornando in Italia devono seguire il programma “scolastico” imposto dal docente, rimuovendo ciò che hanno appreso all’estero.
Altrimenti non essendo “scolastici” nelle loro prestazioni, nelle valutazioni non sono paragonabili con il resto della classe.
Ditemi se mi sbaglio, però “scolastico” per come viene interpretato il suo concetto, significa “apprendimento circoscritto in un determinato luogo e contesto”.
Quindi, mai “sconfinare” dove l’apprendimento “scolastico” ha un suo valore aggiunto.
Però, uno studente uscito “dai confini della Scuola” potrà usare in modo produttivo tutte le competenze “scolastiche”?
Se invece la Scuola non formasse più in modo “scolastico”, ci sarebbero le stesse divisioni che attualmente servono anche per “etichettare” le diverse tipologie di studenti?
Perché anche le attività di recupero o comunque per affrontare diverse tipologie di studenti (dal ritardo cognitivo alla plusdotazione) non sono “scolastiche”.
Sconfinano invece i limiti imposti da una formazione appunto “scolastica”.
Questo anche per valutare con gli esami annuali, chi pratica l’Educazione Parentale.
In tutti i casi citati, non importa quali siano gli obiettivi raggiunti da questi studenti; perché per valutarli si parte dal principio, se ciò che hanno fatto sia “scolastico” oppure no.
Ma che senso ha?
Quando poi uno deve entrare nel mondo del lavoro, deve essere veramente capace o principalmente “scolastico”?
Penso anche che se si superasse il limite racchiuso dal suddetto concetto, non ci sarebbero studenti che sanno o non sanno apprendere, bensì, insegnanti che sanno o non sanno insegnare!
Manuela Fusco
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