«“Cos’è un libro?”, potrebbero chiedersi i bambini breve, immersi in questo contemporaneo, inesplorato disincanto. Senza più saper trovare la risposta». “Cos’è un libro?” è anche il titolo dell’agile saggio appena pubblicato da Anna Angelucci (docente, già coautrice di “Le mani sulla Scuola”) e Renata Puleo (già Dirigente Scolastica, di cui ricordiamo “Valutare senza INVALSI si può. Muri secco e colate di cemento”).
Un pamphlet ricco di idee e spunti soprattutto per quei docenti che, nell’attuale clima d’entusiasmo collettivo per la “didattica innovativa” (ossia informatizzata, telematizzata, “smart” e chi più ne inventa più ne metta), avvertono disagio e cominciano a dar nome, consapevolezza e argomentazioni ai propri dubbi.
In sole 49 pagine il saggio mette a nudo il tema della digitalizzazione delle nostre vite, delle vite di bambini e adolescenti, della didattica. Una digitalizzazione che sta spazzando via (definitivamente?) i libri dalle menti delle giovani generazioni: fenomeno salutato da molti come “progresso” (specie da chi ne trae vantaggi economici, politici, sociali); ma che fa tremare per il futuro quanti avvertono i rischi che un tale “progresso” — apparentemente inarrestabile — comporta.
L’ipnosi collettiva per la magia dei mezzi digitali si sposa con la fascinazione tutta italiana (e italianamente subalterna) per tutto quanto provenga d’oltreconfine, specie se anglosassone. Tale prolifico sposalizio sembra far dimenticare totalmente alcuni capisaldi delle scienze psicopedagogiche e neuropsichiatriche. Stiamo dimenticando — in parole povere — come funziona il nostro cervello, come cresce e si evolve la mente di un bambino, come si forma il carattere di un adolescente, come si costruisce il loro sistema di valori. Ci stiamo scordando di esser cresciuti coi libri e grazie alla lettura dei libri: silenziosa se individuale, ad alta voce in classe. Stiamo convincendoci — neanche troppo lentamente — che il modello pedagogico su cui si sono formati milioni di studenti italiani (tuttora molto apprezzati e richiesti, dopo la laurea, nelle Università di tutto il mondo) sia sbagliato. Chi crede nella funzione pedagogica della lettura del libro cartaceo si sente additare come attardato e retrogrado tormentatore di minorenni: soprattutto se considera “ancora” il libro quale portatore di significato in sé (anche come oggetto dotato di autonomia propria, differentemente da un file di testo nascosto fra altre migliaia in un dispositivo multimediale).
D’altronde la nuova didattica “digitale”, mediante paroloni anglofoni, spaccia per “innovative” pratiche didattiche antichissime: il debate, per esempio, che esiste almeno dal tempo della sofistica e dei dialoghi platonici. Con importanti differenze: la tecnica del debate — sottolineano le Autrici — somiglia «una gara, una disputa con vincitori e vinti all’insegna di quella sfrenata competitività incarnata a scuola dal paradigma delle competenze». Il dialogo insegnato nell’antica Grecia (e praticato nell’arte dell’eristica) era invece «una modalità di confronto e di ascolto attivo, del rispetto per le proprie e le altrui opinioni, capacità di argomentare e contro-argomentare dialetticamente e democraticamente un diverso punto di vista».
Occorre ricordarlo a un Paese che sta dimenticando e rimuovendo tutte le proprie radici? L’Italia si sta definitivamente abbandonando all’ebbrezza dell’autolesionismo? Forse qualcuno pensa di trarre più facilmente profitto e potere da una popolazione in preda allo stupefacente tecnologico?
Il digitale, cui molti insegnanti cedono sempre più terreno, sta sostituendo i docenti stessi nel dialogo coi discenti. «È il dialogo lo strumento educativo per eccellenza. Esso s’identifica con la parola che, rivelando le sue dimensioni di azione e di riflessione, assume il significato di prassi. Dal dialogo ha origine la cultura come costruzione sociale. La cultura è un atto di creazione che consiste nel dare un nome al mondo, in una concezione della realtà in divenire». Per questo un buon docente non ha necessariamente bisogno della lavagna interattiva multimediale, e questa non alzerà d’un millimetro la statura d’un pessimo docente.
Un buon insegnante, a differenza di un ”device“, non ha bisogno di effetti speciali per stupire il discente e spingerlo a conoscere: gli bastano le parole, le proprie emozioni, l’empatia. A un buon libro basta ancor meno per insegnare a immaginare. «Un libro non è altro che una particolare disposizione di 26 simboli fonetici, dieci cifre e circa otto segni di interpunzione, eppure mentre il lettore li guarda, davanti agli occhi si materializzano l’eruzione del Vesuvio o la battaglia di Waterloo».
Docente e libri trasformano dei ragazzi in adulti capaci di immaginare. I device — e le multinazionali — li tramutano in monadi che non immaginano, perché già satolle di immagini create da macchine.
Quale futuro attende l’umanità? Quello di bruti ben addestrati a non saper immaginare mondi diversi da quelli già programmati? Quello che i nazisti volevano quando bruciavano i libri? È questa la meta cui siamo avviati, anche sull’onda del panico creato dalla pandemia (e dell’accelerazione da esso impressa alla digitalizzazione di massa)?
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