Crediti formativi, porto d’armi e la lezione di don Milani

È il giorno della riunione preliminare delle commissioni dell’esame di Stato. L’età media della mia commissione, ad occhio e croce, si colloca ben oltre i cinquanta anni e quindi tutti i componenti conoscono a fondo il rito burocratico che dà inizio alla Maturità, parola sempre meno adatta ai nostri tempi puerili.

Uno dei primi atti dei commissari consiste nell’esame dei fascicoli degli studenti e nel controllo dei cosiddetti “crediti formativi”, che riguardano attività extrascolastiche la cui validità viene riconosciuta dal Consiglio di classe, sulla base di indicazioni e parametri individuati dal Collegio docenti.

Quindi, a voler prendere le cose sul serio, l’attribuzione del “credito formativo” vede coinvolta l’intera istituzione scolastica.

Dunque, eccomi anche quest’anno a scorrere l’elenco di “attività extrascolastiche” trasformate in crediti formativi. A un tratto mi fermo, poiché penso di aver letto male: nella casella del credito c’è scritto “porto d’armi”. Cosa c’entra il porto d’armi con il “credito formativo”? Cerco di farmelo spiegare da uno dei membri interni: a suo dire, la licenza comporta verifiche, esami, acquisizioni di conoscenze etc. Proverò poi, a casa, a controllare sul sito della Polizia di Stato, ma non mi pare che il porto d’armi comporti una crescita “formativa” degna di rilievo. E se pur fosse, se pure il porto d’armi lo si conseguisse dopo aver sostenuto esami su esami a me quel “porto d’armi” accanto al nome di un diciannovenne continuerebbe a suonare come una nota stonata. Ed aggiungerei che una scuola che si riempie la bocca di espressioni come “educazione alla pace” ed “educazione alla legalità” non dovrebbe essere così strabica da riconoscere la qualità di “credito formativo” al porto d’armi.

Quando ci si chiede come mai la scuola italiana abbia gravi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di individuare il problema centrale: la scuola, intesa come istituzione, ha perso la bussola e non è in grado di orientarsi perché non sa più dove stia la sua stella polare. Soltanto questo profondo disorientamento, che parte dai vertici ministeriali (di cui si sospetta la malafede) e degrada giù giù sino ai Consigli di classe (che invece spesso agiscono in buona fede, cosa che personalmente non ritengo un’attenuante) può spiegare alcuni esiti come quello di cui ho appena parlato.

Se vogliamo prendere un altro esempio recente, la santificazione di Don Milani, di cui il MIUR ha celebrato con gran pompa il cinquantenario della morte è frutto dello stesso disorientamento e dello stesso strabismo. Riporto, per meglio chiarire il mio pensiero, una frase del documento con il quale il MIUR comunica ufficialmente l’iniziativa su Don Milani:Si trattava di un modo di fare scuola che oggi si potrebbe ricondurre alla valorizzazione delle competenze intese, secondo le Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo, come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto” necessarie per “la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione”.

Io penso che Don Milani, con il suo disprezzo aristocratico verso ogni forma di perbenismo piccolo-borghese e con la sua attenzione verso l’uso delle parole avrebbe avuto un conato di vomito di fronte ad una frase come questa. Eppure la nostra scuola, che invoca come genio tutelare don Milani, è mostruosamente selettiva; ed il continuo parlare di “inclusione” sembra quasi voler rivelare, attraverso il tic linguistico ossessivo, la propria cattiva coscienza. Immagino che a don Milani questa nostra scuola non piacerebbe per nulla; egli praticava una didattica rude, rigorosa, austera (e come ha recentemente ricordato Lodolo D’Oria un tipo come Lorenzo Milani oggi sarebbe facilmente finito sotto processo per gli scappellotti che non risparmiava ai suoi studenti) ma nutrita di passione e di slancio civile, fattori che mancano del tutto alla nostra scuola asfittica.

Quando nel febbraio del 1965 i cappellani militari della Toscana in un documento definirono l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”, la risposta di don Milani fu ferma: si ha il diritto di non obbedire, l’obbedienza non è più una virtù quando è praticata senza spirito critico. Rivolto ai cappellani militari che davano la propria benedizione alle armi scrisse queste parole icastiche: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

Tale presa di posizione pubblica costerà al priore di Barbiana un processo, che si concluderà con una famosa e farisaica sentenza: “Il reato è estinto per morte del reo”. E qui vorrei chiudere questo orbita un po’ sghemba che parte da un “credito formativo” assegnato per il possesso del porto d’armi e comprende al proprio interno il magistero di Lorenzo Milani del quale un ministro dell’istruzione che ha esibito una laurea che non possiede non si dovrebbe appropriare.

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