I dati sulle iscrizioni agli Istituti superiori ci confermano la crisi dell’istruzione tecnica, soprattutto nell’indirizzo economico.
Dal 1990 sul totale degli iscritti alla scuola secondaria gli allievi degli istituti tecnici sono passati dal 44% al 30,3%, (11,2% economici tuttora in diminuzione) mentre quelli dei licei sono passati dal 30% al 53%.
Per una delle prime dieci potenze economiche del Pianeta e seconda potenza manifatturiera d’Europa non c’è affatto da gioire considerato il bisogno, spesso non soddisfatto, di figure tecniche da parte delle aziende.
Non tralasciamo poi la scarsa educazione finanziaria dei nostri connazionali (giudicabile anche dallefregatureprese negli scandali bancari) confermata da un’indagine Standard & Poor da cui si evince che solo il 37% degli italiani dimostra competenze finanziarie.
In un Paese in cui la metà della popolazione non sfoglia un quotidiano, sei persone su dieci non leggono un libro e il 68% non visita neanche un museo (dati Istat 2016) mi permetto di affermare che l’orientamento scolastico da parte di molte famiglie è guidato spesso da superficialità e da provincialismo che vedono negli istituti tecnici scuole di serie B rispetto ai tanto decantati Licei.
A questo punto, mi permetto di presentare alla Ministra dell’Istruzione, donna pragmatica proveniente dal mondo economico, una proposta terra terra, un escamotage che potrebbe fare il bene del Paese e di molti ragazzi.
A prescindere da nuove riforme, cambi subito il nome agli Istituti Tecnici e li chiami Licei economici e/o tecnologici. Sono convinto che ci sarebbe subito una ripresa.
Se poi in essi si desse più spazio a storia, geografia economica, diritto, macroeconomia ed economia internazionale rischierebbero di diventare la scuola del futuro.
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