Grande lo scalpore suscitato il 1° febbraio dalle parole di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. Il giornalista deplora il calo di iscrizioni al liceo classico: «il prossimo anno lo frequenterà appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi. Il classico non è nello spirito del tempo, secondo cui la scuola serve solo a trovare lavoro. (…) Il classico è come la cyclette: mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte. Ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto».
Vero: chi ci legge sa che condividiamo. Gramellini però omette di ricordare che quanto sta accadendo è frutto di precise scelte politiche, coerenti per 30 anni, e comuni a tutti i governi susseguitisi. Ultimo episodio, l’invito del ministro Valditara non iscriversi ai licei (che secondo lui non danno lavoro), ma ad istituti tecnici e professionali, che sfornano “fabbri ferrai, artigiani e operai specializzati del tessile e dell’abbigliamento, costruttori di utensìli e assimilati, fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori carpenteria metallica”.
È almeno dai primi anni ‘90 che la musica è questa. Nel 1995 (Governo Dini) la Scuola fu affidata alle amorevoli cure del ministro Giancarlo Lombardi, industriale milanese figlio di un presidente di Confindustria e lui stesso vicepresidente della medesima, nonché presidente di Federtessile. Subito fu varato il CCNL Scuola che abolì per i docenti gli scatti biennali e li ridusse a sessennali e settennali, condizionati alla frequenza di corsi di aggiornamento.
Dopo una storia infinita di lenti ma inesorabili passi (che hanno ridotto il docente delle scuole in travet), ora siamo al punto che, in questi giorni, i docenti italici fanno a gara nel suggerire ai dirigenti come spendere i fondi del PNRR in “innovazioni tecnologiche”. Fuori dal coro solo poche voci: come quella del Professor Romano Luperini, celebre critico letterario e docente universitario.
In una lettera aperta agli insegnanti italiani, Luperini li esorta a prender coscienza dell’ormai totale svilimento del loro ruolo: «Sempre più si tende a trasformarvi in tecnici dell’insegnamento, in impiegati che hanno smarrito o devono comunque smarrire la funzione intellettuale di interpreti di testi e di mediatori culturali. È un vero e proprio declassamento non solo del vostro ruolo, ma della cultura e della stessa letteratura».
La decadenza della Scuola italiana — che, guarda caso, fa il paio col decadere dell’Italia nel suo complesso — non è avvenuta per caso, né per ineluttabili leggi di natura. La controriforma Gelmini/Tremonti/Berlusconi (2008), tagliando almeno 8,5 miliardi all’istruzione pubblica (mentre si aumentavano progressivamente i soldi pubblici distratti verso le scuole private, in barba alla Costituzione), sabotò il Liceo Classico, ove oggi quasi non si studia più la geografia, la storia è una cenerentola, il monte ore dell’italiano al ginnasio è decurtato del 20%, l’unitarietà delle cattedre di lettere è un lontano ricordo. Di conseguenza anche lo studio è diventato più caotico e faticoso, e i risultati sono ben peggiori di 15 anni fa.
Inoltre al liceo arrivano quattordicenni ormai spesso semianalfabeti, convinti che il passato remoto del verbo avere sia “io avei, tu avei, egli averono” (considerando “egli” plurale!). Questi teneri virgulti di un’Italia in declino ignorano cosa sia l’antichità, avendo frequentato le elementari della controriforma Moratti (nelle quali si accenna vagamente solo alla storia antica), e le medie, in cui degli antichi non si parla quasi più.
L’ovvio risultato è la progressiva perdita di senso dello studiare nel liceo classico: ove è oggettivamente arduo raccapezzarsi, per ragazzi così impreparati, in un percorso di studi per loro più difficile e incomprensibile che per i ragazzi iscritti prima delle varie controriforme.
Non siamo forse di fronte a una lenta ma spietata demolizione controllata del liceo (e della Scuola tutta) come ascensore sociale, per lasciar posto ad una Scuola “ufficio di collocamento”, centro di addestramento — come suggerito dalle parole di Valditara — per i mestieri subalterni che il “mercato del lavoro” (ossia i ceti che lo controllano) desidera?
Il liceo classico crea lavoratori consci di sé e dei propri diritti, perché dotati di pensiero critico: il quale dal liceo classico sboccia spontaneo, fin da quando Giovanni Gentile lo rese perfetto congegno per educare ceti dirigenti. La Scuola dell’Italia repubblicana lo trasformò nello strumento di elevazione civile ed etica che ha reso adulti e civilizzati tanti di noi, provenienti dai ceti subalterni e non predestinati al dominio.
È il neoliberismo, bellezza. I miliardi pubblici del PNRR devono “innovare” e tornare alle aziende che producono tecnologia. E che nessuno si ponga (come fa chi ha studiato al liceo classico) domande “scomode”: per costruire quale società? a vantaggio di quale modello etico? con quale progetto per la felicità comune? con quale ritorno sul piano del benessere collettivo e individuale? e con quale giovamento per l’edilizia scolastica, in un Paese in cui le scuole, seppur “innovative”, letteralmente crollano?
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