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Crollano le vendite dei dizionari di Latino e Greco. Perché studiare ancora le lingue morte?

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Meno 37% è il calo nelle vendite dei dizionari di greco e latino registrato negli ultimi 20 anni, dal 2003 al 2023, come riporta il Corriere della Sera che ha intervistato Irene Enriques, la direttrice editoriale della casa editrice bolognese Zanichelli. Questo dato fa il paio con un’altra cifra, ormai di dominio pubblico, che riguarda il nostro Paese, più in particolare l’ Emilia Romagna, dove meno di tre studenti su cento hanno scelto di iscriversi al liceo classico per il prossimo anno 2024-25. Numeri coerenti e inquietanti al tempo stesso: l’Italia, culla delle lettere, delle arti e della poesia starebbe cambiando rotta per puntare su matematica, scienze e tecnologia? 

Un’inversione di tendenza che, secondo la direttrice di Zanichelli, sarebbe dovuta al fatto che da qualche anno i vari governi che si sono succeduti e Confindustria spingono per indirizzare più studenti verso istituti tecnici e professionali, allo scopo di raddrizzare un certo disallineamento fra offerta di lavoro e istruzione.

Il dato emiliano – continua Irene Enriques – è notevole perché testimonia di un progressivo abbandono dello studio delle lingue classiche. Non è soltanto il liceo classico a subirne le conseguenze: perde, infatti, progressivamente studenti anche il liceo scientifico tradizionale, in cui si studia il latino per cinque anni. Nel liceo linguistico, al contrario, il latino è limitato ai primi due anni e si studia per lo più cultura latina, grammatica e versioni hanno un ruolo marginale.

L’intervista si sviluppa e passa ad affrontare altri temi, come l’impatto che avrà l’intelligenza artificiale sulla vendita dei dizionari o l’attualizzazione della didattica delle cosiddette lingue morte per ridare nuovo slancio a queste discipline.

Ma il tormentone è sempre quello, la madre di tutte le domande, quella che viene posta a ogni piè sospinto: a che serve studiare il latino e, a maggior ragione, il greco antico? C’è da dire, a questo proposito, che greco e latino sono in buona compagnia, perché “a che serve?” è abbinata ugualmente ad altre discipline come, ad esempio, la filosofia. Studiare deve dunque “ servire” obbligatoriamente a qualcosa? Certo, a condizione che con questa domanda non si intenda: “ti serve a trovare un lavoro?”

Secondo Dario Iocca, insegnante, musicista e collaboratore della rivista Il Tascabile, lo studio delle lingue classiche aiuta a migliorare la padronanza della lingua madre, a sviluppare l’intelligenza logico-matematica grazie alla ginnastica mentale della versione e infine a formare l’uomo e il cittadino tramite i numerosi “exempla” della cultura antica.

Sulla questione della logica non è d’accordo la professoressa Roberta D’Alessandro, linguista e docente di Sintassi e Variazione linguistica presso l’Università di Utrecht, secondo cui dire che sia una lingua invece che un’altra a insegnare la logica non ha senso, perché parte dal presupposto che alcune lingue siano più logiche di altre. L’esperta linguista, in un suo intervento sull’ Huffingtonpost di qualche tempo fa, afferma che le lingue classiche ci insegnano che lo studio richiede fatica, che non tutto è risolvibile con l’intuizione, che a volte bisogna incollarsi alla sedia e memorizzare diligentemente paradigmi su paradigmi, eccezioni su eccezioni. Insegnano a esercitare l’arte della pazienza, insegnano a essere meticolosi, a dedicare tempo e concentrazione ad attività che non portano un risultato immediato. Insegnano la perseveranza, che è una dote fondamentale se si vuole riuscire negli studi.

Gabriele Ferrante

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