Ieri mattina, durante il primo Collegio dei docenti del nuovo anno scolastico, tra i numerosi punti all’Ordine del Giorno si è discusso delle sedicenti “buone pratiche” (adotto il lessico abitualmente adoperato dal dirigente per indicare una serie di abitudini e di esperienze “virtuose” poste in essere in una scuola), degli adempimenti e delle più urgenti deliberazioni concernenti aspetti burocratico-organizzativi: la nomina dei membri di una serie di commissioni tecniche, gli incarichi incentivabili con il Fondo di Istituto, corrispondenti anche a voci sottoposte ai meccanismi per l’assegnazione del bonus finale, ossia alla valutazione premiale del DS, la definizione dei criteri utili per la designazione delle Funzioni Strumentali e delle loro aree di competenza: insomma, una sequenza di argomenti noiosi sollevati ad ogni inizio d’anno scolastico.
Trattandosi di punti che “seducono” più che altro i soggetti venali e mercenari (o gli elementi più “collaborativi”, dal loro punto di vista), oltretutto per quattro spiccioli, il sottoscritto non si lascia entusiasmare da siffatte dispute bizantine e tediose. Quando la seduta stava per volgere al termine, si è presentato un tema assai serio e concreto, che ha destato il mio interesse: è stata delineata una proposta relativa ad un progetto di formazione/prevenzione rispetto alle più comuni e diffuse dipendenze giovanili: il tabagismo, l’alcolismo e le tossicodipendenze. Come si può facilmente intuire, trattasi di una problematica di enorme rilievo socio-educativo. Sulla quale è intervenuta una collega, che ha ventilato l’ipotesi di una cooperazione addirittura con (udite udite!) la comunità di San Patrignano, i cui sistemi sono a dir poco discutibili, in quanto hanno poco a che fare con la prevenzione, bensì con esperienze coercitive e repressive. Ho alzato la mano per ottenere la parola e far presente alla platea il rischio di una simile ipotesi e spiegare che la questione è estremamente delicata, che occorre procedere con cautela e competenza, che un’attività di prevenzione socio-educativa in materia di dipendenze esige e presuppone un determinato livello di abilità, esperienze e conoscenze, ed infine che interventi inidonei o maldestri potrebbero rivelarsi finanche nocivi e controproducenti. Ma il preside non mi ha concesso il modo ed il tempo per esplicitare, in una forma chiara ed esaustiva, il mio ragionamento. Non è la prima volta che accade.
Già lo scorso anno, alcuni miei interventi venivano puntualmente e bruscamente interrotti. È fin troppo palese (mi pare) il timore per qualsiasi tipo di critica o “pensiero divergente”, una sorta di insofferenza o allergia verso il contraddittorio dialettico e il pluralismo democratico delle opinioni. Per cui l’incipit del nuovo anno scolastico lascia prefigurare che avrò molto da combattere, da rivendicare e conquistare. Ora, a proposito di “buone pratiche” nella scuola, credo che sarebbe una “buona pratica” far parlare chiunque, senza opporre interruzioni, né manifestare fastidio. Sarebbe una “buona pratica” ascoltare e tollerare, se non finanche valorizzare i punti di vista critici e divergenti. Sarebbe un’altra “buona pratica” coinvolgere la platea in modo democratico ed effettivamente collegiale, senza privilegiare soltanto chi si dimostri “collaborativo”.
Sarebbe una “buona pratica” non recepire passivamente ed acriticamente qualsiasi proposta calata dall’alto. Sarebbe, infine, una “buona pratica” abbandonare tutte quelle “buone pratiche” che non hanno alcun interesse, né ricadute, e non servono assolutamente a nulla nell’insegnamento in classe: non hanno alcun “valore”, tranne per un’esigua minoranza.