La “Culpa in vigilando” ha il suo fondamento nell’art. 2048 del Codice Civile.
Si legge nel secondo comma:” I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.
Il passaggio individua i responsabili e il limite temporale. Spesso però, i pochi che conoscono questo riferimento normativo (mi riferisco all’art. e non al generico “Sono responsabile…”), non conoscono il comma successivo che richiama la condizione liberatoria: “le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.
Da qui discende il principio che non è sufficiente la presenza fisica per non essere citati per inadempienza degli obblighi sulla vigilanza.
In altri termini, non è sufficiente provare che al momento dell’incidente occorso al minore si era presenti. E’ necessario provare con atti formali o più semplicemente con azioni ad alto tasso di visibilità che si è impedito il fatto.
Alcuni esempi: zaini spostati in parti dell’aula non soggette al transito degli alunni; divieto esplicito di dondolarsi sulla sedia, di correre negli spazi ristretti dell’aula…
Ribadisco il criterio stringente che i giudici – sul loro tavolino non ci sono trattati di pedagogia, che “parlano” di autonomia – hanno come riferimento e dal quale discendono le loro sentenze: il grado di prevedibilità dell’evento!
Ovviamente questo ricade nell’interpretazione del giudice, in base alla documentazione e alle dichiarazioni dei testimoni.
Solo il basso tasso di prevedibilità dell’evento, può essere configurato come “repentino” e quindi rientrare nella condizione di “non aver potuto impedire il fatto“.
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