È proprio vero che — come taluni sostengono — la cultura classico-umanistica freni lo sviluppo tecnico-scientifico e il progresso civile? Nella celebrazione del passato, i giovani italiani perdono davvero il contatto con la realtà? Hanno ragione i detrattori del liceo classico ad esultare se i suoi iscritti calano?
Certamente negativa è l’erudizione fine a se stessa, status symbol classista tipico dell’impostazione gentiliana. La cultura umanistica non dev’essere nozionismo; l’archeologia non può essere idolatria del reperto; la filosofia non deve ridursi ad agiografica “filosofologia”. Creativo non è chi enumeri a memoria i nomi dei poeti ellenici minori, né è intellettuale chi sfoggi citazioni ad effetto in latinorum. La cultura dev’esser linfa vitale, non mummia del passato.
Come non basta la laurea in ingegneria per saper usare l’ingegno, così conservatorismo e passatismo non aiutano a capire la Storia e ad usarla per comprendere il presente.
Non è vero, però, che la cultura classica non insegni creare. Lo dimostrano i tanti grandi scienziati italiani che hanno fatto la storia della scienza mondiale.
I cittadini italiani sono solo 59 milioni: poco più di sette ogni 1.000 abitanti della terra. Se consideriamo invece gli scienziati più importanti della storia, la proporzione cambia drasticamente: uno su quattro, grosso modo, è italiano. E di tutti i grandi scienziati italiani, quanti sono partiti da studi classici, o ne sono stati comunque influenzati? Pressoché tutti. Probabilmente perché gli studi classici permettono di comprendere che ogni idea umana è legata alla cultura che la partorisce, in un contesto storico definito: e tale comprensione costringe ad abbandonare dogmatismi e rigidità mentali, mettendo a frutto tutte le energie della propria intelligenza.
Dall’atmosfera dell’umanesimo, difatti, fu ispirato Leonardo da Vinci. Galileo Galilei, che ideò il moderno metodo scientifico sperimentale, conosceva letteratura latina e filosofia greca: in latino scrisse il “Sidereus nuncius”, rivoluzionario trattato d’astronomia. Guglielmo Marconi, bolognese, pur senza profondi studi classici, è comunque figlio di quella cultura italiana che, su basi classicistiche, stava tumultuosamente industrializzandosi tra ‘800 e ‘900: suo padre era ricco e colto; sua madre, irlandese, era giunta in Italia per studiare bel canto.
L’attuale direttrice del CERN di Ginevra Fabiola Gianotti, fisica, classe 1960, di padre geologo e madre letterata, aveva preso la maturità classica al Liceo delle Orsoline di Milano. Il Nobel per la fisica 1938 Enrico Fermi (1901-1954, artefice del primo reattore nucleare a fissione), figlio di maestra elementare, aveva studiato al Liceo Classico “Umberto I” di Roma (attuale “Pilo Albertelli”). Bravissimo in greco e latino, s’era innamorato delle scienze leggendo un trattato di 900 pagine in latino del 1840, scritto dal gesuita Andrea Caraffa del Collegio Romano: “Elementorum physicae matematicae”, su astronomia, matematica, meccanica classica, acustica e ottica. L’aveva acquistato da una bancarella del mercato di Campo de’ Fiori.
Il chimico palermitano Stanislao Cannizzaro (1826-1910), studioso dell’atomo, aveva imparato filosofia, lettere, matematica e retorica; era così bravo che già a 15 anni fu ammesso all’Università di Palermo. Il fisico e chimico comasco Alessandro Volta (1745-1827), creatore del primo generatore elettrico, aveva studiato filosofia e retorica presso i gesuiti. Il fisico catanese Ettore Majorana (1906-1938), studioso di fisica nucleare e meccanica quantistica relativistica nonché dei neutrini, aveva brillantemente conseguito la maturità classica studiando a Roma al Collegio “Massimiliano Massimo” dei Gesuiti, e poi al Liceo “Torquato Tasso”.
Il fisico goriziano Carlo Rubbia (classe 1934), Nobel per la fisica 1984, figlio di maestra, aveva studiato filosofia e latino nel liceo scientifico. Il biologo, medico e Nobel 1975 per la medicina Renato Dulbecco (1914-2012), studioso delle cellule tumorali, s’era diplomato al Liceo Classico “De Amicis” di Imperia. L’astrofisica fiorentina Margherita Hack (1922-2013), di padre antifascista e madre diplomata all’Accademia delle Belle Arti nonché miniaturista agli Uffizi, s’era diplomata a 18 anni al Liceo Classico “Galileo” di Firenze.
La filosofa veneziana Elena Lucrezia Cornèr Piscòpia (1646-1684), prima donna laureata al mondo (nell’Università di Padova), aveva studiato greco, latino, filosofia, ebraico, spagnolo e teologia; ma si occupò di scienze e geometria solida.
Dopo l’unità la Scuola italiana fuse in una visione unica umanesimo, scienze e tecnologia. Di tale sintesi il Liceo Classico è emblema e simbolo. Ne nacque l’ingegneria italiana, celebre nel mondo ed originale: non fatta di tecnocrati, ma di scienziati e umanisti come Francesco Brioschi (Milano 1824-1897), matematico e rettore dell’Università di Pavia, diplomato al Liceo Classico “Cesare Beccaria” di Milano. O come l’ingegnere chimico ligure Giulio Natta (1903-1979), Nobel per la chimica 1963, celebre inventore della plastica, anche lui diplomato al Liceo Classico “Cristoforo Colombo” di Genova.
Detestare tale tradizione significa disconoscer la realtà. Chi cerca di eliminarla, sogna forse una scuola meramente addestrativa per polli d’allevamento, incapaci di decifrare il presente e progettare il futuro?
«Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza», ammoniva Leonardo: prima c’è la conoscenza, approfondita e multiforme, poi le “competenze”. Checché ne dicano gli aspiranti addestratori di polli in batteria.
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