Da inizio anno sono stati almeno 43 i femminicidi, secondo i dati monitorati dalla Casa delle Donne di Bologna, che significa nove ogni mese. Troppe per restare in silenzio: le donne, sulla scia di una protesta nata in rete con l’hashtag #saranonsarà, scelgono un drappo rosso da esporre alla finestra per dire ‘no’ alla violenza. Anche Laura Boldrini lo fa da Montecitorio.
Da Nord a Sud la protesta fa rumore nel suo silenzio: non si può rimanere indifferenti di fronte al femminicidio di Sara Di Pietrantonio, la studentessa universitaria uccisa a Roma dall’ex fidanzato, come di tutte le altre prima di lei, “ben 115 vittime se le contiamo a partire da gennaio 2015”, dice Telefono Rosa. Che ricorda anche il numero impressionante di 8.856 vittime di violenza, 1.261 di stalking.
“Dieci vittime di femminicidio in più o dieci di meno ogni anno cambiano poco: resta la portata del fenomeno, una lunga scia di sangue che non si arresta nel nostro Paese”, commenta con Adnkronos Angela Romanin della Casa delle Donne di Bologna, spiegando che non solo il maltrattamento domestico, lo stalking e la violenza sessuale “possono portare alla morte della persona offesa ma anche la violenza psicologica”. Un controllo sulla donna da parte del compagno all’interno delle mura domestiche che si rivela “non meno devastante di quella fisica” e su cui bisogna imporre maggiore attenzione.
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“Il femminicidio di Sara Di Pietrantonio ha scosso il Paese. La crudeltà e l’efferatezza hanno lasciato basite anche noi. Ma proprio per questo è ora che l’Italia metta in campo strumenti e risorse adeguate”, afferma Gabriella Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, che chiede alla ministra Maria Elena Boschi di confermare i fondi disponibili per contrastare la violenza, “anzi è necessario aumentarli affinché i centri ‘Antiviolenza’ siano potenziati per sostenere le vittime (il 90% delle donne non denuncia: un dato allarmante)”. Inoltre, aggiunge, vi sia “un impegno costante affinché nelle scuole sia inserita sistematicamente: l’educazione di genere, la parità di genere e la lotta al sessismo in tutte le sue forme. Questa è una battaglia senza più attenuanti per la cultura machista di cui spesso anche il linguaggio è intriso”.
Una rivoluzione culturale per fermare il femminicidio che deve partire dalle scuole e che necessita più che mai di coinvolgere gli uomini oltre le donne. L’autore di violenza utilizza l’aggressività nella relazione “per sancire possesso e controllo” specie nel momento in cui si rompe quell’equilibrio ‘malato’ di sottomissione della donna. Ma l’aggressività “si può trattare”, assicura Andrea Bernetti, psicoterapeuta e responsabile del Cam, il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Roma, che chiede un maggiore coinvolgimento delle istituzioni nel lavoro di prevenzione.
In Italia, ad esclusione dei progetti in carcere, sono in tutto 15 i centri (compresi i 5 Cam) che si occupano di autori di violenza. La concentrazione è al Centronord.
Gli agenti educativi sono due: “la scuola e la famiglia ma è in quest’ultima che i più piccoli apprendono il modello affettivo, sia per quanto riguarda la relazione di coppia sia per quanto riguarda il rapporto genitore-figlio”. Parlare di affettività attraverso il confronto, il dialogo, è importante dunque sia a scuola che in famiglia.
A maggior ragione le strategie di prevenzione devono mirare a mettere i minori al centro. “Pensiamo a tutti quei bambini che assistono dentro quattro mura a episodi di violenza, un danno per loro che va evitato con percorsi adeguati del padre. Per un bambino è comunque un danno anche non averlo un padre perché allontanato da casa. Il figlio ha diritto ad avere un papà e un papà ha il dovere di essere un buon genitore. Tentare di cambiare è difficile, ma si può”.