Quando si pensa che conoscere l’altro sia possibile anche con uno sguardo o con la frequenza e poi ci si accorge che l’interazione non basta ed osservare volti ed emozioni non sempre è condivisione. Quando si pensa che il contatto sia sempre vita che si svela e, invece, si scopre che spesso camuffa e non palesa. Quando si pensa che tutto intorno rema contro una nuova metodologia e, invece, si riesce a prenderne il meglio, cosicché il corso delle cose diventa uno ‘specchio speculare’ sempre limpido, anche quando c’è un monitor, un distanziamento sociale, un essere dentro una storia che ha cambiato le relazioni.
La mia classe è stata tra i banchi della nuova scuola solo pochi mesi…il tempo di conoscerci e poi ritrovarci subito dentro un meccanismo separato dal contatto.
Leggere e studiare a distanza attraverso il libro di testo è difficile, in alcune circostanze, se guardato con occhi disincantati, sembra creare ulteriori lontananze e perpetuare consueti cliché, ma dentro quella classe virtuale, “ben” costruita in questi mesi, l’insegnante, un giorno, decide di non dare informazioni, non spiegare il ‘racconto’ ma di entrarci dentro.
Sono storie che scavano la sensibilità e commuovono quelle raccontate in un libro sul cyberbullismo, racconti realmente vissuti e densi di significato ed emozioni. Ed è attraverso quelle storie che inizia il viaggio del racconto.
…c’era in meet un insolito silenzio quella mattina…“avete letto le storie di Andrea, Cristian e Sofia?” Amici mai conosciuti ma con dentro delle esperienze che avevano bisogno di essere narrate. Vedo un quadratino illuminarsi e uno di loro accende il microfono e inizia a raccontare…“durante gli ultimi anni della scuola primaria avevo i capelli lunghi perché amavo Cavani e li tenevo a bada con una sorta di cerchietto, avevo uno stile mio e ne ero fiero, siamo andati un giorno in gita ed io ho indossato un mocassino, non ero io a decidere come vestirmi ma la mia mamma, a me piacevano.
Da quel giorno e per tanto tempo mi hanno chiamato ‘Mocassino’, non mi hanno più lasciato in pace, non mi hanno dato respiro, hanno cancellato la mia spontaneità” si accende un altro microfono e poi un altro ancora… “mi prendevano in giro perché mi ero innamorato, perché quando vedevo quella ragazzina mi emozionavo, mi prendevano in giro da tempo e mi picchiavano, mi picchiavano sempre perché subivo in silenzio, mi mettevano la colla in testa”… “sa, prof. mi hanno torturato per anni con l’appellativo di balena, continue parolacce che non posso ripetere, me ne vergogno, solo perché ero grassa, perché i miei genitori si erano separati e dicevano che non ero come loro, mi lasciavano sempre sola, sempre emarginata. Io li guardavo da lontano e solo essere brava a scuola mi rendeva veramente diversa, ma ero triste, delusa e avevo spesso voglia di piangere”. Da uno dei quadratini dello schermo si leva una voce decisa “mi deridevano perché io da timido non parlavo molto, mi offendevano perché non amavo stare in gruppo, io ero timido ma socievole, ero timido ma rispettoso, ero silenzioso ma pieno di parole, di cose da dire, io ero infelice, infelice di andare a scuola” …”io, invece, ero arrabbiato perché non mi ascoltava nessuno, perché non mi credevano. Un giorno ho trovato la forza di raccontare alla mamma di un bulletto, incontrata davanti la scuola, che suo figlio mi aveva picchiato, lei mi ha risposto che la scuola stava per finire, mancavano solo poche settimane, di avere pazienza” … “sono straniera e quando sono arrivata in Italia ero fragile, a scuola lo ero ancora di più perché nulla attorno a me era familiare, sono stata presa costantemente in giro, ero appellata con dispregiativi” … “non sapendo cosa farmi un giorno hanno iniziato a tagliarmi lo zaino e tutto quello che era mio” … “in classe c’era una delle maestre che si portava la lima e si sistemava le unghia delle mani e ad un certo punto ha anche portato il fornetto per fissare lo smalto. Mi prendevano in giro, lei non sentiva. Neanche le altre sentivano. Non si sono mai accorti di nulla. Allora pensavo che funzionasse così, ma crescendo e vedendo un’altra faccia della scuola ho capito che non era normale, non era giusto. Ho pensato per anni di essere sbagliata e spesso lo penso ancora”
Ci sono momenti nella vita di un insegnante indescrivibili, ci sono momenti in cui vorresti contenere dolore, rabbia, tristezze, gioie, ci sono momenti in cui essere presenza è l’unica vera possibilità.
Ho lasciato che ognuno di loro raccontasse se stesso…erano tanti…erano cuori, lacrime inespresse.
Poi ho detto che il verbo ‘raccontare’ ha una sua origine etimologica non banale e non semplicissima. Durante i pochi mesi insieme eravamo riusciti ad entrare dentro i significati delle parole e cercarne principio. Il racconto è la voce viva di una persona e ha una sua genesi latina in “contare”, quindi l’idea di un comunicare, di un riportare ‘calcolato’, di una misurazione che mette in ordine. Un susseguirsi ‘misurato’ di varie frasi, una dietro l’altra, idee che anche se possono sembrare strampalate, poco ordinate riescono a manifestarsi sagge, anche quando il tumulto delle emozioni prevale e sembra generare confusione. Il racconto è RELAZIONE.
“Oggi professoressa noi soli con noi stessi, senza avere accanto nessuno siamo riusciti a metterci in relazione gli uni con gli altri. Da oggi saremo più uniti.” In meet aleggiava ancora silenzio.
Ci sono parole “viste” che non riescono ad essere pronunciate e parole “ascoltate” che diventano fiumi, racconti indelebili che legano, congiungono e completano la non scelta della didattica a distanza.
Alice Titone