«Non ci sarà una scuola in meno in Italia. Chi aveva il proprio edificio scolastico sotto casa, nel proprio Paese o in quello a fianco, continuerà ad averlo». Parole del ministro Valditara, pronunciate nel giugno 2023. Pochi giorni dopo, il nuovo piano di dimensionamento scolastico, previsto dalla Legge di bilancio, prevede un numero minimo, per mantenere l’esistenza di una scuola come ente autonomo, di 961 alunni. Risultato: dall’a.s. 2024/25 ben 700 scuole non saranno più autonome. Nihil sub sole novum.
«I dirigenti», aggiunge il ministro «non dovranno più stilare bilanci relativi alle reggenze e cadranno i vincoli minimi di studenti per istituire un’autonoma scolastica. In particolare, per le scuole di montagna ci potrà essere un’autonomia scolastica con solo 100 studenti. Spetterà alle singole Regioni la decisione di come compensare”. Parola di ministro. Il quale omette di sottolineare però che, per “compensare” la deroga concessa ad una singola scuola di montagna con 100 studenti, ce ne dovrà essere un’altra del medesimo territorio con 1.800 alunni. Immaginarsi cosa succederà sui monti d’Abruzzo, Calabria, Lombardia (tanto per fare qualche esempio) e sulle isole minori.
In parte il ministro ha ragione: non sarebbe politicamente corretto parlare di scuole “eliminate”, perché fisicamente esse continuano ad esistere. Il problema è però che, tagliando presidenze e segreterie, se ne compromette ancor più l’efficienza, creando per tutti (lavoratori e studenti) ulteriori disservizi. Già ora le segreterie hanno poco personale e i dirigenti sono oberati di lavoro e responsabilità; i collegi, di dimensioni elefantiache, sono spesso composti da personale docente troppo eterogeneo (elementari, medie e superiori insieme); il numero degli alunni (sovrabbondante rispetto ai pochi collaboratori di sorveglianza) rende la vita a scuola fisicamente pericolosa (in edifici perlopiù malsicuri).
Tutto ciò tuttavia fa sì che lo Stato “risparmi” tanti bei milioni («dai 2,6 milioni di euro del 2024 fino agli 88 milioni del 2032 di fondi risparmiati», secondo il ministro leghista), da reinvestire «migliorando il trattamento economico di prèsidi e personale amministrativo». Intanto, però, di amministrativi e prèsidi ce ne saranno molti in meno: come sempre da 40 anni a questa parte, con qualsiasi governo in carica.
Ogni regione vedrà diminuire de iure i propri istituti. Di fatto ciò comporterà maggior distanza dalla sede centrale di ogni istituto (specie in montagna, nelle piccole isole e nel Sud) per moltissimi alunni e genitori; sarà più difficile amministrare le sezioni staccate più lontane; probabilmente aumenteranno gli alunni per ogni classe. D’altronde, secondo Valditara, è colpa — come sempre — del precedente governo, e in più ce lo chiede l’Europa: «Si tratta di una riforma obbligata, anche in linea con quanto definito dal precedente governo in accordo con la Commissione Europea».
Comunque sia, il governo Meloni è compatto nel difendere la linea. A ottobre la sottosegretaria del MIM Paola Frassinetti (Fratelli d’Italia), parlando a Crotone, ha ribadito che, grazie al governo, va tutto bene nella Scuola: persino l’autorevolezza dei docenti sarebbe stata ristabilita. Come? «Introducendo il voto in condotta» e «aumentando gli stipendi». Evidentemente gli insegnanti erano distratti, perché di questi significativi progressi e “aumenti” non si sono proprio accorti. Tuttavia — bisogna ammetterlo — il morale è alto, il rancio ottimo e abbondante.
Qualcuno però critica i provvedimenti del ministro leghista. «Siamo di fronte», attacca il “governatore” della Campania Vincenzo De Luca già nel giugno scorso, «a un tentativo di tagliare risorse e personale alle regioni del Sud».
Calunnie? Forse. Resta il fatto che accorpare istituti non pare proprio la strategia giusta per combattere la dispersione scolastica, altissima al Sud; né per favorire il “merito” di chi proviene dai ceti più disagiati. Negatività che verrebbero ulteriormente inasprite dalla regionalizzazione differenziata (contro la quale il 9 maggio i lavoratori della Scuola sciopereranno e scenderanno in piazza). Non caso la penalizzazione maggiore sarà per Campania (140 fusioni), Sicilia (109), Calabria (79), Puglia (66), Sardegna (45), Lazio (37).
Nel 2023 la pioggia di critiche è stata così fitta, da indurre il timoniere a una correzione (parzialissima) della rotta: il 28 dicembre il tradizionale “decreto Milleproroghe” ha concesso di non accorpare 185 istituti in tutta Italia (circa nove per regione in media); ma solo per due anni. Non è che la sostanza cambi molto, ma tant’è.
Sulla stampa meno vicina al governo si legge che Valditara si occupa più della scenografia che della sostanza: lo testimonierebbe il suo preoccuparsi del voto di condotta anziché di disabili, edilizia scolastica e precarietà. Pare si faccia accogliere tra scenografie da anni Trenta, con bimbi che inneggiano sventolando tricolori (sarebbe accaduto a Potenza in una scuola pochi giorni fa in vista delle elezioni regionali). Chiacchiere? bugie maligne e tendenziose?
Come che sia, i ministri del governo Meloni possono dormire tranquilli: le caratteristiche (o i difetti?) degli italiani, che hanno consentito loro di arrivare al governo di una delle più importanti democrazie occidentali, probabilmente consentiranno anche di restarci a lungo.
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