Si può morire di freddo in un garage oggi, nel nostro Veneto?
Qualcuno ha scritto che il Nord-Est non è più ricco come qualche anno fa.
Ma non possiamo continuare a pensare al Pil, per cercare di giustificare una condizione sociale. Perché poi la realtà, lo sappiamo, non ama le medie, ma nasconde tanti anfratti di cui non abbiamo sempre la percezione o conoscenza.
Basterebbe, di tanto in tanto, recarsi alla Caritas, oppure fare un passaggio presso gli uffici sociali dei Comuni, o scambiare due battute con i volontari della Croce Rossa e con altri gruppi.
Ci si accorgerebbe che i luccichii dell’imminente Natale invece di richiamare ad un senso vero di questa Festa forse rischiano di oscurare ciò che, in fondo, semplicemente non vogliamo vedere.
Troppo presi dalla vita frenetica, dalla moda odierna dell’apparire, facciamo sempre più fatica a cogliere chi non rientra nelle nostre bolle mentali e sociali.
E se, per caso, ci capita di notare qualcosa o qualcuno di “strano”, cioè di “estraneo”, con nonchalance oramai ci giriamo dall’altra parte.
Col Natale alle porte tutto si ridurrà ad una cerimonia svuotata dal suo senso profondo? Riusciremo, per un attimo, a fermarci e a meditare sul valore di questa Festa? E quale potrebbe essere il regalo più grande oggi che potremmo scambiarci? Forse, semplicemente, avere occhi per vedere.
Più che la paradossalità della situazione di Treviso, con protagonista un attivista per il diritto alla casa che ha cacciato da casa un 53enne perché moroso, è l’impenetrabilità della nostra coscienza che colpisce oggi.
La ragione è semplice: non riusciamo più a produrre forme di speranza personale prima che sociale.
Se non si è protetti da certi cerchi concentrici sono sempre più complicate oggi le forme di auto-aiuto. E non può essere certo l’assistenzialismo, in certi casi inevitabile, l’unica ricetta giusta.
Sta venendo meno cioè il senso di un destino comune, l’idea di una speranza che vada oltre i piccoli cabotaggi quotidiani dell’arte del sopravvivere.
Che avesse ragione Sartre, uno dei leader del ‘68, il quale definiva così il nostro tempo, cioè “l’inferno sono gli altri”? Cioè paura, rabbia, risentimento, scetticismo.
Persino odio.
Lo stesso Sartre cercò in qualche modo di mitigare la ferocia del suo aforisma: “Si è voluto che volessi dire che i nostri rapporti con gli altri sono sempre avvelenati, che sono sempre dei rapporti infernali. Io, invece, voglio dire che se i rapporti con gli altri sono distorti, viziati, allora l’altro non può essere che l’inferno. Perché? Perché gli altri sono, in fondo, ciò che vi è di più importante in noi stessi, per la nostra propria conoscenza di noi stessi”.
Scoprire dunque l’altro, gli altri, è il senso del nostro vivere. Perché noi, in sostanza, siamo anche l’altro, gli altri.
Che è come dire che gli altri siamo noi, che sono dentro di noi, che l’inferno possiamo essere noi.
Come ci mostrano le guerre, le infinite conflittualità, le logiche amico-amico applicate ai diversi ambiti della vita politica, economica, sociale.
Scoprire, oltre il mito del mio io, anche il tu ed il noi, è un percorso che non è scontato. Di qui la sofferenza, la rabbia, l’inquietudine.
Che cosa significa la parola pace in queste situazioni?
Solo chi è in pace in se stesso e con se stesso può essere in pace con gli altri, col mondo.
Capace dunque di pensiero positivo, aperto, solidale.
La memoria dell’imminente Natale dovrebbe, al di là del suo uso consumistico, invitarci a vincere l’istinto della lotta all’altro, agli altri. Che è lotta contro noi stessi.
I veri “muri”, dunque, sono dentro noi stessi.
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