Alla partita a scacchi ci aveva giocato già il cavaliere al suo ritorno dalla Terra santa, nel film di Ingmar Bergman, ma con la morte, che alla fine vice la partita, seppure barando, e che non l’aveva potuto acchiappare prima, durante le mischie con gli infedeli. Forse per distrazione o perché intenta a falciare altri valorosi.
Nello spettacolo che viene rappresentato al Piccolo teatro di Catania, con la regia di Mario Incudine e tratto dal romanzo di Costanza Di Quattro, “Arrocco siciliano”, il protagonista, Antonio Fusco, perde anche lui, ma contro un furbastro avversario; ma soprattutto è sconfitto perché gioca male la sua partita, nonostante il suggeritore, nella voce fuori campo di un bambino, Pietro Jacono, gli proponga cosa fare e come piazzare le sue pedine, sebbene la mossa principe risulti quella dell’arroccamento, di proteggere cioè il re all’ombra della torre. Per evitare lo scacco matto, certamente, e dunque di perdere la farmacia che si è giocato a carte e che ora tenta di recuperare sulla scacchiera. Che è campo di battaglia e gioco di intelligenza e di riflessione, e non di fortuna, come le carte della zecchinetta.
Sullo sfondo, ma attraverso il monologo del bravissimo e applauditissimo Blas Roca-Rey, la Ragusa Ibla dei primi del Novecento che appunto si avverte dalle modulazioni di voce dell’attore, nelle variazioni sul tema, si potrebbe dire con immagine musicale, fra le ottave di un timbro di voce sicura perché calibrata e perfino urlata e pure sussurrata, per fare percepire allo spettatore le trame sottili o evidenti che si dipanano tra la sua farmacia e la gente, fra il suo essere forestiero e gli abitanti del luogo, di questa Ragusa ancora provinciale e paesana e persino pure un po’ bigotta.
Ma si coglie pure nei continui cambi di abito per interpretare i vari personaggi che si sarebbero dovuti muovere sulla scena e che dunque vengono assorbiti e rivissuti sempre da questo fantastico Blas Roca-Rey che fra l’altro si sposta con disinvolta padronanza sul palco, aggirandosi fra una cornice, appesa come un divisore, e nella quale rispecchia se stesso per guardare il pubblico, un appendi panni ingombro di giacche, riportando così alla mente ciò che fu il libero mattatore per il teatro dell’Ottocento.
Una scena inoltre ingombra di pedine, quelle degli scacchi appunto, che servono per annunciare il tema, e le sue varianti, simboleggiando nello stesso tempo l’intricato gioco, non solo degli eventi, ma anche dei grovigli della vita, in questo giocare perenne col mondo e con gli eventi dentro cui una mossa sbagliata conduce allo scacco e alla perdita di ciò che si è creato durante l’intera esistenza. Da qui la difesa e l’arroccarsi per resistere ancora agli attacchi della sorte iniqua, come cantava Amleto, e che non è solo un arrocco siciliano, ma universale, come ben sa il cavaliere sulla scacchiera con la morte.