Attualmente in Parlamento e da parte dei soggetti coinvolti è oggetto di valutazione, auspicabilmente attenta, un disegno di legge complessivo sulla realtà dell’istruzione. Esso in parte riprende l’impostazione del progetto “La Buona Scuola” con la relativa consultazione – di fatto un mero questionario chiuso, aperto peraltro non solo al personale della scuola ma anche ad altri “portatori di interesse” – e la contestuale mobilitazione di docenti e studenti che ne derivarono (ottobre-dicembre 2014).
Il Ddl, nella sua non lineare gestazione (frutto, evidentemente, della difficile sintesi di diversi interessi rappresentati in seno alla maggioranza di Governo), ha alcuni aspetti positivi, poiché riprende alcune questioni centrali della concreta realtà scolastica: lo stesso interesse del legislatore in termini non solo di “contenimento delle spese” (tagli diretti e indiretti) ma di una riconosciuta centralità strategica per il futuro del Paese. Da qui lo stanziamento di fondi aggiuntivi per il personale dopo anni (dal 2008, la famigerata operazione estiva Tremonti-Gelmini) di progressivo impoverimento, il riconoscimento del problema dell’elevato numero di alunni per classe (uno dei più funesti fra i tagli indiretti), infine l’accoglimento di una proposta ormai datata dei movimenti dei precari e di qualche sindacato, quale la creazione di un organico funzionale pluriennale, che, nel dare maggiori possibilità lavorative in un settore ad alto tasso di precariato (quello dei docenti), intende dare risposte anche a diffuse richieste di efficienza (ad es., per la gestione celere delle supplenze) e di potenziamento dell’offerta formativa (progetti di qualità, corsi di recupero e così via). Infine, grazie ad una certa mobilitazione dei docenti, sono stati salvaguardati gli scatti di anzianità (legati al numero di anni di servizio), mentre è stata accantonata la proposta degli scatti di competenza (basati su criteri fumosi ad ampio tasso di discrezionalità dei Dirigenti scolastici).
Nondimeno si rilevano forti elementi di criticità, maggiori degli aspetti positivi (tralasciando il tema delle assunzioni, peraltro legate ad una sentenza storica della Corte di giustizia dell’UE, novembre 2014, e alle innumerevoli cause pendenti: si tratta pertanto di un atto dovuto e di una sorta di accordo stragiudiziale di massa), che riguardano il testo del ddl e le sue conseguenze nel caso venisse approvato in questa forma dal Parlamento. Queste note critiche vanno a illustrare alcuni aspetti con l’intenzione di contribuire ad informare e anche a modificare larghe parti del testo.
1) Il Governo ha affidato un progetto ambizioso – riformare per l’ennesima volta la scuola – alla via legislativa, ancorché non per decreto o legge finanziaria, previa sola parvenza di consultazione on-line, anziché affidarsi a strumenti certo più lenti e complessi, ossia la discussione con le parti sociali (i sindacati e i movimenti rappresentativi) nei luoghi deputati. Si tratta di un modello decisionista ormai consolidato ma non per questo accettabile, perché apre la strada ad un conflitto per via delle pesanti e non condivise modifiche a tutti i livelli, soprattutto giuridico, che investirebbero il personale della scuola.
2) Il modello di scuola quale si configura dal Ddl riprende in larga parte proposte da tempo proprie del centro-destra (proposta di legge Aprea che neppure il governo Berlusconi nel 2008-2011 volle o seppe approvare), di area confindustriale liberista (Fondazione Agnelli) e di lobby interne alla dirigenza scolastica (l’Anp, uno dei sindacati più oltranzisti e perciò mediatizzati dei presidi): di fatto un miscuglio tutto interno ad un modello socio-economico neoliberista, già verificatosi come fallimentare nel corso degli ultimi 15 anni (dall’Argentina alla Grecia), che ha nell’Ocse il proprio riferimento sovranazionale. Ricordo che anche sulla scuole in generale sui servizi finora pubblici pende il famigerato Ttip, che, qualora ratificato, comporterebbe un’ulteriore ridefinizione in senso mercantilistico.
3) Esso prevede il superamento degli organi collegiali a favore di una gerarchizzazione del personale, con al vertice il dirigente scolastico, la cui funzione, come esplicita già l’art. 2 del Ddl, “è rafforzata […] per garantire una immediata e celere gestione delle risorse umane [etc.]”. è inutile insistere su quale modello di società è prefigurato in un simile obiettivo (la partecipazione democratica come ostacolo alla celerità dei decisori), mentre su questa nuova figura dirigenziale occorrerà tornare.
4) Con la scuola dell’autonomia, come noto istituita dalla riforma di Luigi Berlinguer e dei governi social-liberisti di fine Novecento, si sono verificate due svolte di grande rilievo: una sostanziale equiparazione fra scuole statali e private come servizio pubblico; l’introduzione di termini e pratiche di matrice aziendale, quali la concorrenza fra istituti e il correlato rafforzamento del ruolo del Dirigente scolastico (Ds). Tale processo – progressivo incremento di poteri e responsabilità dei Ds e proporzionale declino degli organi collegiali interni – è stato sviluppato per l’intera area del settore pubblico dalla “crociata” anti-statali intrapresa da Renato Brunetta. Ora tale processo nella scuola giungerebbe al suo esito estremo: il Ds come “dominus” che decide non solo il proprio staff di collaboratori (i vicari, ex vicepresidi, e i responsabili di settori, come già di fatto avviene) ma anche il proprio progetto di scuola per un triennio e l’organico, con un coinvolgimento del collegio dei docenti solo formale e passivo: il suo parere, infatti, è solo sentito (mero valore consultivo anziché vincolante), ha valore di mera ratifica a posteriori (art. 2, c. 9). La democrazia dei postumi.
5) Il reclutamento dei neoassunti e la mobilità dei docenti già di ruolo cambiano profondamente: non sono più affidati allo strumento di graduatorie pubbliche (e perciò verificabili e contestabili) ma alla piena discrezionalità del Ds. Tale mutamento, pur derivante da una concezione aziendalista della scuola, merita qualche approfondimento. Quale modello italico può fungere da paragone? Indubbiamente il mondo accademico può costituire un punto di confronto nel reclutamento affidato non già a dati oggettivi (punteggi di varia natura) ma elementi inevitabilmente di natura clientelare e nepotistica, ossia concorsi formalmente ineccepibili ma sostanzialmente sordidi, con esiti già prestabiliti da accordi fra feudatari. Non è allora un caso che gli ultimi tre governi abbiano affidato il dicastero del Miur ad altrettanti ex-rettori di università né lo è che ex-rettori e altri feudatari accademici siano molto più presenti nelle liste elettorali dei “nominati” e negli eletti rispetto ai docenti e educatori.
6) È difficile ipotizzare che i Ds si comporteranno in modo difforme dai loro omologhi del baronato accademico, forse anche con un di più “vernacolare” o strapaesano (come talvolta avviene già oggi per l’affidamento dei PON in orario extracurriculare). Potendo scegliere senza criteri impugnabili, opteranno su docenti loro collegati da vincoli familiari (nel ddl non si fa riferimento a divieti per esempio entro il quarto grado di parentela), di consorteria e clientela (un Ds del Rotary o dell’Opus dei o del Pd avrebbe interesse a chiamare un docente affiliato e con ciò fidelizzato). Anche in presenza di divieti espliciti è difficile non ipotizzare forme di triangolazione, già in atto nelle università italiche, del tipo “tu chiama mia nipote e io chiamo tua cugina”. La discrezionalità si allarga poi perché non vi sono esplicitati vincoli di disciplina (un DS di un liceo classico chiama un docente di greco) ma si apre a infinite soluzioni (un DS di un liceo classico chiama un docente di arte però per affidargli un corso pomeridiano di violino: cfr. artt. 2, c. 13; 3 c. 1). L’eccessiva discrezionalità diventa la porta di una potenziale arbitrarietà per via della rafforzata facoltà per il Ds di poter “dispensare dal servizio” i docenti al termine dell’anno di prova (art. 9, c. 5): immaginiamo casi di incompatibilità ambientale se non autentico mobbing verso docenti neo-assunti e poi via via verso il resto del corpo docente, quello refrattario a forme di servilismo o estraneo a clientele. Quali strumenti di tutela per la parte “debole”? Nessuna è prevista dal ddl e si resterebbe in attesa di successivi decreti legislativi, indicati su ben 14 tematiche previste (art. 21). Eppure fino ad oggi la normativa, più saggiamente, prevedeva in caso negativo la reiterazione dell’anno di prova. L’efficientismo – questo epigono del futurismo burocratico – al potere non consente la sfortuna di quanti (a me è capitato proprio nell’anno di prova!) di avere un DS ottuso al punto di negarmi di fruire di un giorno di permesso (riconosciuto dal Ccnl vigente) per tenere una relazione in convegno internazionale (il “merito” in Italia è sempre altra cosa!). Come il Governo intenda la figura del docente è rivelato da un sublime lapsus (art. 9, c. 1) in cui si dice che il personale docente ed educativo neoassunto è “sottoposto” al periodo di formazione. Chi vuol intendere, intenda.
7) Concorrenza esasperata fra istituti (art. 2 c. 10: pubblicità dei piani triennali per “una valutazione comparativa degli studenti e delle famiglie”), possibilità di usufruire di sponsorizzazioni (ossia incremento delle disuguaglianze fra istituti di territori diversi e di ordine differente: fra un liceo classico di Torino e un professionale di Enna chi riceverà di più?), pratiche clientelari di reclutamento dei docenti, i quali tenderanno a essere sempre più proni verso le direttive del DS divenuto “dominus”, il coinvolgimento di famiglie e alunni nella valutazione dei docenti: questo non può non essere definito aziendalismo. Fedeltà all’azienda (la propria scuola), indifferenza verso il resto del mondo: il federalismo scolastico all’italiana, l’esasperato particolarismo. La fine della scuola pubblica come strumento principale, insieme alla famiglia e al lavoro, di riduzione delle disuguaglianze e di promozione integrale della persona (ex art. 3, c. 2 della Costituzione: il suo estensore, per gli smemorati, è stato Lelio Basso).
8) Il crescente coinvolgimento di famiglie e alunni nella valutazione dei docenti non va demonizzato, certo. Da studente ho assistito (e talvolta subito!) a non pochi episodi censurabili di ingiustizie di docenti o di semplice inadempienza nel proprio lavoro (in tre anni il nostro docente di storia e filosofia ha svolto una sola lezione, non soddisfacente, su Kant). L’idea che famiglie e alunni possano valutare un docente e di fatto decretarne la continuità in una scuola o meno appare mutuata dal principio della “customary satisfaction”. Immaginiamo che cosa farà un docente in una situazione del genere: voti gonfiati e fine della libertà di insegnamento. Su circa trenta classi gestite in questi anni di insegnamento ho avuto due esperienze negative, proprio legate alle ingerenze e meschinità di genitori scontenti dei voti e alla cattiva volontà di alunni che contestavano le particolari scelte della mia didattica: che cosa dovrò fare in futuro in situazioni analoghe? Sarò ricattabile sia in quanto suddito del DS sia in quanto valutato da potenziali “clienti insoddisfatti”. Dovrò cedere. Manterrò forse la mia sede di lavoro, ma avrò perduto la dignità professionale e soprattutto avrò contribuito al degrado del sistema scolastico.
9) Mentre questo parlamento non riesce ad approvare norme efficaci sulla corruzione, introduce il clientelismo anche nella gestione delle scuole. Che però svolgeranno progetti di educazione alla legalità con Libera. Chiamo don Ciotti per fare pubblicità all’istituto, chiamo un mio “cliens” come docente perché mi fa più comodo.
10) L’art. 7 c. 1 indica come criterio per la gestione del DS il “buon andamento”: principio extragiuridico (tipo la “bona fides”), che pur ripreso dall’art. 97 della Costituzione diviene nella neolingua liberista sinonimo di efficientismo, fra l’altro ignorando (“pour cause”) che nel succitato articolo esso è associato a quello di “imparzialità dell’amministrazione”. Dimentica quello del rispetto di altri principi costituzionali – i grandi assenti di questa riforma, che mai cita la carta fondamentale – fra cui quello di imparzialità e di libertà di insegnamento. Non può essere semplice dimenticanza.
11) Ne discende che anche le lievi modifiche venute dal partito di maggioranza sugli strapoteri del DS non possono essere accolte, giacché una volta introdotto il principio legislativo del DS come “dominus” nella selezione dei docenti e con un ruolo inevitabilmente condizionante nella valutazione degli stessi non vi saranno argini nella concreta vita scolastica: se avrai un DS corretto, bene, se ne avrai uno affetto da manie di grandezza, malissimo. “Com’è misera la vita negli abusi di potere” sarà il leit-motiv di tante sofferenze e nuovi soprusi. Ne discende la proposta di sopprimere l’intero art. 7 del ddl e di riformularlo secondo un diverso principio: il riconosciuto ruolo del DS come “coordinatore della didattica”, la cui intrinseca e estrinseca libertà di svolgimento non può essere ridimensionata, e come “primus inter pares”, docente con un ruolo più faticoso, con minori incombenze burocratiche, e pertanto meglio retribuito.
12) Un caso personale: l’art. 8 c. 9 stabilisce che quanti sono già stati assunti a tempo indeterminato perdono ogni altro diritto (su altra classe di concorso o altro ordine di scuola). Peccato che come me altri colleghi siano vincitori di concorso (in particolare l’ultimo del 2012) su più classi di concorso ma siano stati nel frattempo assunti su un’altra, magari meno confacente ai propri percorsi professionali1. Il venir meno di un diritto maturato in sede concorsuale prefigura un’ondata di ricorsi. La scuola sta diventando una sorta di foro permanente: le cause si accrescono per via della continua modificazione delle procedure e delle norme. Plurimae reformationes in corruptissima re publica – parafrasando Tacito. Un ginepraio di cui possono disinteressarsi solo coloro che la scuola non la vivono. Si esce da scuola e ci si reca dal proprio legale. Per far valere i propri diritti conculcati dallo stesso stato per cui si lavora.
13) Ho già dovuto rinunciare alla professione di studioso in sede universitaria italica a causa dei limiti di legalità sostanziale e di insostenibilità delle regole di ingaggio di quel mondo basato su clientelismo, competizione sleale e altre porcherie simili. Ritengo quel mondo accademico irriformabile, anzi sciascianamente irredimibile. Ritengo il mondo scolastico un baluardo (parziale, incompiuto, chiaroscurale) di ogni speranza di una società meno iniqua e diseguale. L’idea che anche il mondo della scuola possa assumere simili fattezze e nefandezze e che pertanto anche il mio attuale lavoro, quello di docente, mi venga espropriato rappresenta un’ipotesi contro cui occorre mobilitarsi. Non solo per noi stessi. L’idea che i miei figli vengano educati e formati da docenti assunti su base clientelare non è accettabile.
14) La distopia di una scuola basata sul clientelismo e sulle gerarchie è un tassello del processo più generale di smantellamento dell’assetto costituzionale. Pertanto la mobilitazione contro questo ddl assume valore generale: è analoga a quella sui referendum del 2011 sull’acqua bene pubblico, contro la corruzione e le mafie. Non contro generiche “caste” (le quali continuano a proliferare) occorre lottare ma contro quel processo che con buona approssimazione ci pare possa essere denominato di “rifeudalizzazione liberista”. Tutto il contrario di quel principio di emancipazione democratica e di promozione integrale della persona umana che ritroviamo in quell’art. 3 c. 2 della Costituzione succitato.
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