Che direbbe oggi Antonio Gramsci della direzione verso cui la Scuola italiana sta andando? Che direbbe della didattica “per competenze” e degli attacchi alla tradizionale impostazione della Scuola basata sulle conoscenze “forti”, tipica della Scuola italiana?
Nei “Quaderni dal Carcere” (4 [XIII], 55), Gramsci scrive che, già ai suoi tempi, la Scuola «preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata». E chiarisce che questo tipo di scuola, «predicata come “democratica”», è al contrario «destinata a perpetuare le differenze sociali». Pertanto Gramsci considera democratica proprio la Scuola basata sullo studio approfondito e disinteressato, senza scopi pratici, senza finalità lavorative e professionalizzanti immediate, ma finalizzata alla creazione del pensiero critico.
Ebbene, i primi attacchi alla concezione gramsciana della cultura e dell’istruzione sono venuti proprio da sinistra. Di conseguenza però, col pretesto di attaccare la scuola gentiliana e classista, veniva minata alla base anche la possibilità per le classi subalterne di abbeverarsi alle fonti della cultura più elevata. Nel 1977 la Legge 348 (fortemente voluta dal PCI di allora) elimina totalmente il latino dalla Scuola Media unica (istituita nel 1962 dalla Legge 1859); pur mantenendo, naturalmente, l’Insegnamento della Religione Cattolica. D’altronde anche ai tempi di Gramsci, cent’anni or sono, molti esponenti socialisti e comunisti ritenevano che la cultura elevata non servisse agli operai né ai contadini.
Tra fine anni ’70 e inizi del decennio successivo, poi, comincia la restaurazione del liberismo internazionale, che estende la propria concezione del mondo su tutti gli aspetti della vita. Anche in Italia, soprattutto negli anni ‘80, gli effetti si vedono. Oltre alle sconfitte operaie, alla controffensiva padronale e al riflusso dopo gli anni ‘60 e ‘70, nascono le TV berlusconiane. Pubblicità, consumismo, ”edonismo reaganiano” prendono il sopravvento sulle idee.
Alla fine degli anni ‘80 il movimento dei Comitati di Base della Scuola ottiene per i docenti riconoscimenti economici e normativi mai visti prima. Per evitare il ripetersi di simili vittorie, nel 1990 viene varata la legge 146 (“legge antisciopero”), che limita fortemente il diritto di sciopero nella Scuola e non permette più il blocco degli scrutini. Segue passo di carica l’impiegatizzazione della categoria docente: il Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 privatizza il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego, facendo entrare a forza nel Pubblico Impiego stesso i docenti delle Scuole (ma non quelli delle Università), sebbene la libertà d’insegnamento conferisca alla funzione docente caratteristiche di autonomia organizzativa e decisionale che non sono riducibili al rango impiegatizio ed all’obbedienza che gli impiegati devono al dirigente di un ufficio privato. Il Preside diventa “datore di lavoro”. È un vulnus all’articolo 33 comma 1 della Costituzione, ma pochi se ne accorgono. Anzi, la maggior parte degli Italiani (in nome del donmilanismo,già imperante da 25 anni), sono contenti che finalmente qualcuno metta i docenti sotto bastone.
Tra l’altro, il Decreto Legislativo 29/1993 dichiara decaduti gli scatti automatici stipendiali biennali. Nel 1995 il Contratto Nazionale di Lavoro della Scuola riduce gli scatti stessi a “gradoni” sessennali e settennali, conseguibili solo a patto di aver seguito corsi di “aggiornamento” (norma successivamente abolita).
Nel 1997 la “Legge Bassanini” stabilisce norme per la rappresentanza sindacale che escludono dai diritti sindacali tutti i sindacati non “maggiormente” rappresentativi, togliendo loro qualsiasi strumento per sperare di diventarlo.
Con l’”autonomia scolastica” (art. 21 della legge 15 marzo 1997, n, 59 e D.P.R. n. 275/1999), il Preside “datore di lavoro” diventa “Dirigente Scolastico” (mentre nelle Università è ancora Preside elettivo).
La Legge 6 agosto 2008, n. 133sottrae alla Scuola più di otto miliardi di euro, falcidiando cattedre, laboratori, ore di lezione, stravolgendo le cattedre di lettere del Liceo Classico (ove diminuisce del 20% il monte ore di italiano nel Ginnasio e viene dimezzato quello di geografia, la quale è accorpata alla storia).
Il codice disciplinare Brunetta del 2009 aumenta i poteri discrezionali del Dirigente Scolastico nei confronti dei docenti (rendendoli ancor meno propensi a far valere la propria dignità professionale e la propria libertà di pensiero e d’insegnamento).
Infine la Legge 13 luglio 2015, n. 107 (“buona Scuola”) espone ancora di più i docenti all’aziendalizzazione, alla discrezionalità delle decisioni dirigenziali in ogni ambito della vita scolastica, compresa l’erogazione di bonus premiali come il Dirigente meglio ritiene.
Contemporaneamente alla realizzazione di questo cronoprogramma, naturalmente, fa passi da gigante, negli ultimi trent’anni, la distruzione della figura del docentenell’immaginario collettivo. Al punto che oggi i docenti vengono pubblicamente e impunemente derisi, oltraggiati, assaliti, picchiati a sangue.
Nel frattempo, da potenti lobby internazionali arrivano le critiche alla Scuola italiana che non insegna “per competenze”, che è arretrata sul piano delle tecnologie, che è attardata su contenuti “inutili”, “nozionistici”, “sterili”, “classisti”, non aderenti alla vita reale di tutti i giorni, non utili a formare cittadini consapevoli. Quasi che si potesse diventare cittadini consapevoli rimanendo sostanzialmente all’oscuro delle conoscenze fondamentali che i cittadini consapevoli hanno sempre posseduto in ogni tempo e in ogni luogo.
Ma questo, del resto, lo sa chi le conoscenze le possiede. Mantenendo i futuri cittadini in una condizione di sostanziale ignoranza, non si rischia certo che gli ignoranti si rendano conto di esserlo e reclamino più cultura e più conoscenze.
Considerato tutto ciò, è lecito ancora parlare della Scuola attuale come “più evoluta ed efficace” di quella di trent’anni fa?
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